La fuga da Pola nel 1947.
Una storia di dolore e violenza più attuale che mai
Roberto Persico Il Foglio Quotidiano 19 marzo 2022
Il 1° febbraio 1947 la motonave “Toscana” salpa da Pola verso Venezia, con a bordo 917 profughi. Per quasi due mesi il piroscafo fa la spola fra la città istriana e la laguna, trasportando in tutto 11.787 sfollati. Secondo i dati ufficiali, nello stesso periodo altre 15.340 persone hanno lasciato Pola usando battelli di linea o la ferrovia e l’unica strada che la uniscono a Trieste. In tutto dunque sono 27.256 gli abitanti di Pola che nei primi mesi del ’47 hanno abbandonato la loro città prima che fosse annessa alla Jugoslavia di Tito.
Detto così, “ l’esodo da Pola” sembra una cosa semplice. Ma dietro c’è un mondo. C’è la storia di una città fortezza nata nel 1856 come nuova sede della marina militare asburgica, passata in mezzo secolo da poco più di mille a oltre cinquantamila abitanti, miscuglio di austriaci, italiani, sloveni, croati. Ci sono le tensioni seguite all’annessione all’Italia nel 1919, con l’italianizzazione forzata e la facile identificazione italiani-fascisti, e poi le drammatiche vicende che hanno accompagnato la Seconda guerra mondiale, la lotta dei partigiani jugoslavi, la dura repressione fascista, i massacri delle foibe.
C’è l’incertezza dell’immediato Dopoguerra, la città affidata all’amministrazione alleata mentre a Parigi si tratta sul suo destino, i comunisti slavi che cominciano a farla da padroni mentre gli italiani si organizzano in comitati per “Pola italiana” che mandano a Roma appelli poco ascoltati.
Poi, man mano a Parigi diventa chiaro che Pola diventerà jugoslava, il numero delle persone che lasciano la città comincia a crescere. Molti vorrebbero evitare lo sfollamento: gli jugoslavi, che non vorrebbero ritrovarsi con una città fantasma e cercano di frenare l’esodo con violenze su chi parte e promesse per chi resterà; le autorità alleate, che diffidano degli italiani e temono il caos; e anche il governo italiano, sulle prime, vorrebbe evitare una fuga di massa, implicita accusa alle proprie scelte e problema in più da gestire. Ma la realtà è più forte della propaganda: quando si aprono le liste dei partenti, il 90 per cento degli italiani si iscrive.
A questo punto, organizzare l’evacuazione è tutt’altro che semplice. Bisogna programmare la raccolta e la spedizione delle masserizie e perfino del bestiame, trovare i mezzi di trasporto e i centri di smistamento per le persone, identificare le destinazioni finali dei profughi, perché i punti di raccolta non diventino una sorta di campo di concentramento; e per tutto questo occorrono personale e denaro, che da Roma arrivano col contagocce e poca chiarezza.
Il merito di aver pianificato l’esodo, di aver evitato che una vicenda drammatica si trasformasse in un inferno – scrive in Pola città perduta (Ares) Roberto Spazzali, da trent’anni ricercatore dell’istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste – va soprattutto a due uomini, il prefetto di Venezia e il viceprefetto incaricato di pianificare l’esodo: “Mario Micali e Giuseppe Meneghini saranno due figure centrali per tutto ciò che riguarderà assistenza ed esodo, decisive per il lavoro svolto senza un momento di pausa, senza contrasti con gli uffici ministeriali e gli enti preposti alle complesse operazioni. Due figure progressivamente dimenticate nella memoria dell’esodo giuliano-dalmata, perché non cercarono benemerenze, riconoscimenti pubblici, vantaggi personali, e una volta esauriti gli impegni dell’incarico rientrarono nei ranghi dell’amministrazione senza nemmeno godere di una carriera particolarmente in vista”.
In un tempo che vive altre emergenze e altri modi di affrontarle, rievocare questa storia non sarà forse inutile.