Nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1848 sul Lago Maggiore
Da Paolo Mantegazza, La mia mamma, G. Barbèra Editore, Firenze 1886, pp. 65-68.
Il 15 agosto del 48 tutta la nostra famiglia era raccolta dopo pranzo al belvedere della Sabbioncella, quando si vide all’opposta riva di Luvino del fumo e si sentì il lontano rombo delle cannonate.
Un piroscafo che era al servizio delle truppe garibaldine andava e veniva lungo la costa e non si poteva capire se fuggisse o attaccasse, se fosse inseguito o inseguisse.
«Sono gli Austriaci che hanno attaccato Garibaldi».
«Dio buono! Come potrà egli difendersi da un grosso corpo di truppe, egli che ha pochi soldati e fra essi molti novizi al fuoco?»
«Fuggirà nella Svizzera dove potrà essere disarmato».
Questo si diceva fra noi, ma la mamma, che aveva taciuto fino allora e guardava con trepida ansia quei fuochi lontani, seguendone con ansietà le varie vicende, interruppe a un tratto le nostre ciarle col dire: «Garibaldi non fuggirà, ma si batterà, e chi sa che non disperda i nemici».
Intanto s’era portato un ottimo cannocchiale al belvedere e si poteva vedere gli Austriaci colle loro uniformi bianche che sulla strada di Varese che sta lungo il lago, si avvicinavano all’Albergo della Beccaccia, e facendosi schermo delle grosse cataste di legno, che stavano su quella riva, tiravano contro i Garibaldini. Ora ci pareva vedere avanzare i bianchi, ora credevamo di vederli dare addietro; ma la mamma s’impazientava dei nostri discorsi e taceva. Si lasciò però scappare un:
«Poveretti!»
«Perché poveretti? Par proprio che i Garibaldini vincano».
«E anche quando vincessero oggi» rispose la mamma «domani nuove truppe fresche venute da Varese li faranno in pezzi e i poveri feriti di quest’oggi saranno bruciati vivi».
Un lungo silenzio tenne dietro a queste parole; ma io, lasciando di osservare la riva lontana, guardavo fisso negli occhi della mamma e mi pareva di leggere nel cuore e nel pensiero di lei.
Quand’ecco ad un tratto ella si alza e si dirige verso la casa, ed io dietro, ma da lontano… Si veste, prende una borsetta con del denaro e a piedi si dirige verso Cannero, ed io dietro. A mezza strada si volta indietro a un tratto e mi vede.
«Cosa fai, Paolo?»
«Vado dove tu vai!»
«Lasciami e ritorna indietro; devo andar sola a trovare una povera donna».
«No, mamma, tu vai a Luvino e ci voglio andare anch’io».
«Paolo, Paolo, torna indietro».
«No, mamma, nessuno potrà impedirmi di seguirti. Tu vai al campo di battaglia per raccogliervi i feriti; vi può essere del pericolo e voglio esservi anch’io».
La mamma sorrise e si diede vinta. Mi parve anzi di vedere ch’ella fosse contenta ch’io avessi indovinato il pensiero di lei.
Si giunse a Cannero, quando il crepuscolo della sera scendeva sul lago colle prime ombre, e la mamma domandò subito una barca con due robusti barcaioli.
«Dove vuole ella andare?»
«A Luvino».
Una risata generale, un coro di esclamazioni salutarono quelle parole.
«A Luvino? Ma che le pare? – Gli Austriaci hanno vinto i Garibaldini e c’è da esser presi ed impiccati. Ci prenderanno per rivoluzionari, per spie del Piemonte».
La mamma fremeva.
«Ma non avete vergogna di aver meno coraggio di una donna? Io voglio andare a raccogliere i poveri feriti e portarli in casa mia. Questo non si chiama far delle rivoluzioni ed anche gli Austriaci non potranno impedirmelo… E poi, se avete paura, voi mi sbarcherete sola e ritornerete qui senz’aver toccato terra».
«Lei ha un bel dire, ma è a noi che gli Austriaci tireranno le loro palle!»
«Quanti bei ragionamenti vi suggerisce la paura! – Insomma v’è chi voglia venire o no?»
Due giovani barcaioli si fecero innanzi; la mamma strinse loro la mano e si partì.
Si giunse presso la spiaggia di Luvino quand’era già notte. Il piroscafo piemontese che ormeggiava lungo la costa ci fermò al grido: Chi va là?
La mamma espresse la sua intenzione e ci lasciarono andare avanti.
Luvino sembrava morto; non più un tiro di fucile, non più uno squillo di campane, non una voce umana. Qua e là qualche fuoco acceso, che rompeva le tenebre e null’altro.
Finalmente si toccò terra. Un soldato garibaldino ci disse che gli Austriaci erano stati vinti e che si erano ritirati verso Varese, esservi parecchi feriti e pochi morti.
Si andò in casa Crivelli, dove era Garibaldi col suo stato maggiore. Lungo il viale cadaveri di Austriaci, membra divelte, fucili abbandonati: tutto il lugubre scompiglio di un campo di battaglia appena abbandonato.
Garibaldi era seduto davanti a una piccola tavola, guardava una carta geografica e al lume di una candela fumosa di sego mangiava con appetito voracissimo del salame e del pan nero.
Alzò gli occhi e vedendo davanti a sé una signora, si levò subito il cappello con rispettoso ossequio e si alzò dalla sedia.
«Una signora qui! A quest’ora? – Lei non è di Luvino certamente. Qui son tutti fuggiti».
«No, vengo dalla sponda piemontese, e s’ella me lo permettesse, vorrei portare in salvo nella mia villa i feriti di questa giornata».
Garibaldi non rispose, ma commosso profondamente strinse la mano alla mia mamma.
Si sequestrarono subito tutte le barche che si trovarono sulla riva e nel porto e in poche ore si riuscì ad adagiarvi tutti i feriti e i pochi malati. Con altri venuti più tardi erano trentadue.
E tutti alloggiarono in casa nostra convertita in ospedale, e la mamma e il padre e figliuoli dormirono per più di due mesi sulla paglia, felicissimi di cedere il letto a quei bravi soldati di Garibaldi.
Il distinto patriota dottor Benigno Zaccheo di Brissago, il dottor Giovanni Polli, l’egregio farmacista Albertazzi prestarono la loro opera con cuore generoso, e la Sabbioncella fu benedetta dalle opere buone della nostra mamma, della nostra santa.
Garibaldi non dimenticò mai la sera del 15 agosto, e la ricordò sempre con grande commozione».