Il processo di industrializzazione, nato alla fine del Settecento in Inghilterra e sviluppatosi per tutto il secolo successivo anche nelle principali nazioni europee, comportò l’abbandono delle campagne e l’aumento della popolazione nelle città. Con la conseguenza di un forte degrado sociale e igienico-sanitario. E proprio in Inghilterra architetti e urbanisti si posero il problema di trovare modelli alternativi, talora utopistici, al proliferare di città sempre più invivibili. Tra questi urbanisti va ricordato soprattutto Ebezener Howard che, con il suo saggio del 1898 DOMANI. Una via pacifica per una reale riforma, descrive il progetto di una città-giardino, un agglomerato urbano di non grandi dimensioni con nuclei abitativi formati da residenze unifamiliari, attorniate dal verde, con servizi, negozi, teatro, chiesa, zone produttive e zone amministrative, in modo tale da rendere questi centri completamente autosufficienti. Alcune città in Inghilterra e poi in altre nazioni furono progettate in base a questi princìpi, ma non sempre l’idea originaria dette i risultati sperati. Infatti la vicinanza con un grande centro finì spesso per inglobare le città giardino, che diventarono semplicemente quartieri residenziali periferici.
In Italia però una visione green dell’architettura urbana doveva fare i conti con la storia delle tante città italiane sviluppatesi nei secoli finali del Medioevo, la cui immagine è connotata in profondità dalla pietra del luogo, come già oltre mezzo secolo fa aveva dimostrato Francesco Rodolico (docente di Mineralogia presso la Facoltà di Architettura di Firenze), pubblicando Le pietre delle città d’Italia. Con competenza e sensibilità storica, l’autore metteva in evidenza come quasi ogni città italiana abbia la sua pietra o le sue pietre di riferimento: la pietra serena e quella forte a Firenze; a Venezia la bianca pietra d’Istria; il marmo delle cave di Candoglia a Milano; il calcare rosso a Verona; a Napoli il tufo giallo e il piperno di origine vulcanica; e via dicendo.
Solo tenendo conto di questa sedimentata storia urbana si possono fare interventi green, in un corretto equilibrio tra zone verdi e architettura in pietra, come fece Giuseppe Poggi a Firenze nell’Ottocento con il suo Piano di Risanamento e Ingrandimento della città. Infatti, prendendo a modello le città di Parigi e di Londra e dovendo anche risolvere seri problemi di ordine igienico e di degrado sociale del centro storico di origine medievale e rinascimentale, non solo progettò piazze ampie, larghe vie e moderni fabbricati residenziali, ma anche spazi di verde pubblico. Che collocò sia dentro la città antica (come nelle storiche piazze di Santo Spirito e di San Marco e le nuove piazze Indipendenza e D’Azeglio), sia all’esterno delle vecchie mura, abbattute per far posto a moderni viali alberati di circonvallazione. Furono rimboschite anche le colline circostanti, a partire dalla collina di San Miniato, che era completamente brulla prima della realizzazione del Viale dei Colli, come si vede in alcune foto degli anni precedenti.
Se necessariamente le città nel corso dei secoli modificano il loro aspetto originario, è apprezzabile nel Piano urbanistico del Poggi questo misurato intervento di pianificazione di verde pubblico, che salvaguarda l’identità storica di Firenze come città di pietra.
Non è affatto condivisibile invece il progetto recente del Comune di Firenze “di riqualificazione’” di via Cavour tra piazza San Marco e via de’ Pucci, in cui si prevede, oltre alla pedonalizzazione, la messa a dimora di due filari di piante di arancio, in totale 50. Giustamente 49 fiorentini, di riconosciuto rango professionale e scientifico, hanno criticato il progetto in una lettera al sindaco Dario Nardella, alla giunta e al consiglio comunale, per chiedere di non piantare alberi nella centralissima via Cavour, giudicando il progetto “un’inspiegabile sgrammaticatura” rispetto al contesto urbano. “Nella nostra città – scrivono – i viali alberati sono comparsi solo con gli interventi ottocenteschi, ma al di fuori di quello che era il perimetro delle mura medievali”. I firmatari aggiungono che “questa improvvida iniziativa è presentata come un ‘elemento di lotta al cambiamento climatico’ in un centro che si definisce ‘pietrificato’, come fosse un difetto da correggere. A questo scopo però gli aranci in via Cavour darebbero un contributo solo di facciata. E viene da chiedersi con quali altri interventi nel centro storico proseguirebbe la realizzazione della ‘città green’.”
Sempre in merito a una Firenze città green, gli aranci spuntano anche agli Uffizi, insieme a un florilegio di essenze, piante, arbusti, fiori e siepi. Archiviato infatti dal Consiglio superiore delle belle arti definitivamente il progetto della Loggia Isozaki, ecco che per l’uscita della Galleria degli Uffizi fiorisce il Giardino di Flora, un’idea progettuale promossa dal sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi. Il progetto prevederebbe un giardino all’italiana, con la realizzazione di tante isole verdi orizzontali e verticali. L’obiettivo è quello di diventare “il primo esempio di isola verde all’interno del centro Unesco, capace di dare il via a una serie di iniziative in grado di offrire ossigeno e refrigerio, oltre che di generare una più corretta e sostenibile fruizione del museo a cielo aperto che è Firenze“, come si spiega nell’abstract depositato alla Soprintendenza metropolitana alle Belle arti e al Paesaggio.
Certamente questi, sia pure parziali, interventi urbanistici di ritorno al passato rinascimentale della città avrebbero dato ulteriori motivi di protesta a Giovanni Papini, quando, nella provocatoria serata futurista del 12 dicembre 1913 al Teatro Verdi, lesse il suo manifesto dal titolo Contro Firenze passatista, invitando i fiorentini a non trasformare la città in un grande museo per i turisti, ma a vivere nel presente e nel futuro. E risuonano ancora attuali le parole di Papini in una Firenze “ museo a cielo aperto” con un centro storico sempre meno vissuto dai residenti e ormai dominio del turismo di massa.
Sergio Casprini