Una terribile tragedia passata per troppi anni sotto silenzio
Goffredo Buccini Corriere della Sera 10 febbraio 2021
Quanto a pulizia etnica, il serbo Vaso Cubrilovic sapeva il fatto suo: sette anni prima aveva messo a punto un manualetto per togliersi di torno gli albanesi.
Nel 1944 questo fanatico panslavista, che appena diciassettenne aveva partecipato all’attentato di Sarajevo e sarebbe poi diventato ministro del maresciallo Tito, scrisse un secondo memorandum, in parte dedicato a noi: «Col diritto dei vincitori siamo giustificati nel richiedere agli italiani di riprendersi le loro minoranze. Il regime fascista trattò molto male il nostro popolo (…). Quando riconquisteremo quei territori dell’Istria e Dalmazia, li dovremo rioccupare anche etnicamente allontanando tutti gli italiani che vi si sono insediati dopo il 1° dicembre 1918». Il «metodo Vaso» puntava ad «allontanare gli etno-diversi» tramite «la forza brutale di un potere statale organizzato (…). Non rimane che una sola via, la deportazione di massa». Facile, da simili teorie, scivolare in massacro: perché tale fu, quello patito dagli italiani nelle terre diventate jugoslave, anche se una radicata narrazione negazionista ha teso nei decenni a farne una noticina a pie’ di pagina.
Oggi si celebra il Giorno del Ricordo e, come sempre, ci arriviamo divisi.
Carla Cace, giovane presidente dell’Associazione nazionale dalmata, ha ricordato che, nonostante gli sforzi di Sergio Mattarella nel fare accettare finalmente il termine di pulizia etnica, «in molti programmi scolastici il tema è ancora trattato marginalmente o per niente, la stampa se ne occupa di rado e alcune recenti pubblicazioni, anche di illustri case editrici, sembrano sostenere posizioni palesemente al limite del riduzionismo e del giustificazionismo».
Il riferimento pare chiaro. In gennaio è uscito per Laterza, a firma di un giovane storico «militante», Eric Gobetti, un testo dal titolo deliberatamente provocatorio: E allora le foibe? La frase, in sé urticante, vorrebbe in realtà motteggiare un mantra assai abusato dalla destra radicale nelle polemiche sulle leggi razziali e le nefandezze del nazifascismo per sostenere che nel Novecento tanto destra che sinistra affondano radici in un orrore più o meno equivalente: e questa è, certo, una tesi impraticabile, perché l’Olocausto resta un unicum non solo per le dimensioni (sarebbe avvicinabile semmai al massacro stalinista dei kulaki), ma per il sistema teoretico d’origine (in proposito, oltre agli studi di Johann Chapoutot, è illuminante il volume di Robert Jay Lifton, I medici nazisti, su come alla persona umana si sostituì il Volk, quale individuo collettivo da proteggere da germi e parassiti — malati, dementi e poi zingari e soprattutto ebrei).
Ogni equiparazione è ingiusta non solo per le vittime della Shoah ma anche per quelle delle foibe: genocidi e massacri non si scambiano come figurine.
Ciò posto, il pamphlet di Gobetti, pur dichiarandosi sulle foibe lontano dal negazionismo, inciampa, in effetti, nel riduzionismo se non nel giustificazionismo, nei toni e nell’impianto. Sostiene che non vi fu nulla di etnico, ma molto di politico e di antifascista nell’operazione che i comunisti titini fecero contro gli italiani (e certo gli slavi avevano subìto vent’anni di durezza e ferocia dal regime fascista, ma questo non assolve). Lima il conto delle vittime (stime abbastanza condivise parlano di otto-diecimila morti e trecentomila profughi dal settembre 1943 alla metà degli anni Cinquanta). Non dedica neppure un accenno alle ricette allora circolanti sugli «etno-diversi». Attribuisce a «sfortunata casualità» o «oscuri interessi politici» la strage dei nostri connazionali sulla spiaggia polesana di Vergarolla, senza citare mai l’ipotesi prevalente anche presso gli inglesi (che ci fosse la mano dei servizi titini). Riduce a una «protesta dei ferrovieri comunisti» uno degli episodi più vergognosi: il 17 febbraio 1947 decine di famiglie polesane stremate sbarcarono ad Ancona dalla nave «Toscana» per raggiungere La Spezia in treno; lo chiamarono «il treno dei fascisti», a Bologna lo accolsero a sassate sventolando bandiere rosse e i ferrovieri Cgil minacciarono di bloccare lo scalo strategico mentre si gettava sui binari il latte destinato ai bambini; i polesani furono costretti a proseguire fino a Parma per riuscire a rifocillarsi. Il diavolo della storia sta insomma nei dettagli e nelle omissioni persino più che nei numeri. E la storia è naturalmente assai più larga di un pamphlet.
L’archivio di un altro studioso, Enrico Miletto, gronda di racconti dei nostri connazionali vittime di quella pulizia etnica, («Tito ci ha detto guai se parlate l’italiano e noi parlavamo apposta italiano e a 15 anni mi hanno messo anche per quello in prigione alla vigilia di Natale, che con Tito era proibito festeggiarlo», ricorda Walter, scappato con papà e fratelli nel 1947). A racconti simili ha attinto il bel libro di Dino Messina, Italiani due volte, che sostiene — a ragione — come commemorare questa vicenda non dovrebbe essere più né di destra né di sinistra in un Paese appena dotato di coscienza di sé.
Fu pulizia etnica. Colpì i fascisti ma anche tanti antifascisti, borghesi, «capitalisti», depredati e gettati nell’Adriatico e nelle foibe.
E sulla sua cifra «politica» si fonda la cappa di silenzio che per decenni ne ha coperto la storia. Nell’Italia ferocemente divisa del dopoguerra, le masse di nostri compatrioti in fuga da Tito erano una spina nel fianco del Pci: forse il comunismo non era un tale paradiso, se tanti ne scappavano… «L’Unità» del 30 novembre 1946 era netta, al limite del disprezzo: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori». Insomma, i nostri profughi, spesso trattati come bestie all’arrivo, nelle caserme e nelle strutture improvvisate dove li accogliemmo, dovevano essere fascisti, cos’altro? Questa vulgata ha intriso a lungo la cultura nazionale.
Ma il tempo è passato. Vaso Cubrilovic è morto, onorato in patria, dopo aver servito da consigliere un altro assassino, Slobodan Milosevic. In Italia, anche grazie alle prese di posizione di autorevoli ex dirigenti comunisti come Giorgio Napolitano, Luciano Violante e Piero Fassino, molto è cambiato. Non tutto, non ancora.
Sarebbe giusto e sano, più di settant’anni dopo, accogliere infine la storia di questi italiani come nostra. Con la decenza di non usarla a scopo di fazione. Ma col rispetto che merita, in un Paese che essi videro come patria, per nascita e per scelta: e dunque, davvero, Patria due volte.