Emilio Gentile Sole 24 ore 2 luglio
Cosa avrebbe pensato Rosario Romeo dell’Italia nel centenario della Grande Guerra, se la morte non avesse troncato la sua esistenza a 62 anni, il 16 marzo 1987? Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno rispondere a un’altra domanda, che forse si pone qualche giovane lettore: chi era Rosario Romeo?
La domanda è tutt’altro che banale, riferendosi a uno storico «che sta lentamente e ingiustamente scivolando nel dimenticatoio del grande pubblico», come scrive Guido Pescosolido nella prefazione a una riedizione di due saggi di Romeo sul Risorgimento e sull’Italia nella Grande Guerra, pubblicati fra il 1968 e il 1970. A tale sconfortante constatazione si può obiettare, che nel dimenticatoio scivolano gli storici che non solleticano la curiosità del grande pubblico con narrazioni polemiche o aneddotiche, ma cercano invece di avviarlo alla conoscenza critica del passato, da cui ha origine, nella sua inevitabile storicità, l’esistenza individuale e collettiva.
Nato a Giarre l’11 ottobre 1924, Romeo si formò nell’Italia del secondo dopoguerra assimilando la storiografia di Benedetto Croce, Gioacchino Volpe e Federico Chabod. Autore di originali studi sul Risorgimento, sull’industrializzazione italiana e di una splendida biografia di Cavour, Romeo non disdegnava di rivolgersi al grande pubblico per indurre gli italiani a riflettere sulla loro formazione di nazione unita in uno Stato indipendente e sovrano. Esemplari sono i suoi articoli pubblicati su quotidiani a larga diffusione, dove illustrava con sintetica chiarezza il significato storico di un’opera, di un personaggio, di un evento. Altrettanto esemplari sono i due saggi riediti insieme con un titolo appropriato: L’Italia alla prova. Il titolo evoca il problema fondamentale della storiografia di Romeo: la formazione dello Stato nazionale e la sua crisi dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale, le due più gravi prove alle quali fu sottoposta l’Italia unita nei primi ottanta anni della sua storia.
Torniamo così alla domanda iniziale: come avrebbe visto Romeo l’Italia di oggi. Siamo tentati di immaginarlo intimamente addolorato nel constatare che le condizioni etiche e politiche della collettività, che si fregia anagraficamente della cittadinanza italiana, non sono diverse da cinquanta anni fa, per quanto attiene ai valori che dovrebbero tenere unita la popolazione di uno Stato nazionale. «Nazione e patria, che durante un secolo e mezzo di storia erano gradualmente assurte a valori e criteri di giudizio direttivi e supremi, dopo il 1945 sono, non dirò scomparse, ma certo assai scadute nella coscienza e nella cultura», scriveva Romeo nel 1970, nel delineare le varie interpretazioni del Risorgimento dopo la Seconda guerra mondiale. Questa, con le sue conseguenze, affermava Romeo, aveva provocato una «profonda frattura … nella storia non solo politica ma intellettuale e morale della penisola».
L’Italia nata dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale aveva poco in comune con l’Italia unita nata dal Risorgimento, tranne la struttura unitaria dello Stato. I principali partiti della nuova Italia repubblicana nulla avevano in comune con i valori e gli ideali del Risorgimento. E ciò ebbe riflessi nella storiografia, dove si affermarono, in simbiosi con i partiti dominanti, correnti marxiste e cattoliche (e talvolta marx-cattoliche), che rivendicavano il primato delle forze, sia religiose sia sociali, rimaste fuori dal Risorgimento e dall’Italia liberale, e negavano o svalutavano il loro significato storico, come artefici della grande trasformazione che, in poco più di mezzo secolo, come scrive Romeo, sottrasse la penisola al rischio di essere respinta «nell’area dell’arretratezza e del sottosviluppo in cui doveva essere assorbita tanta parte del bacino mediterraneo».
Con la conoscenza scaturita da decenni di ricerche sulla vita politica, sociale, economica e culturale del Risorgimento e dell’Italia unita, Romeo affermava che «il più vasto e profondo significato del Risorgimento italiano in quanto unione di aspirazioni liberali e nazionali», fu lo sforzo per «rimontare lo svantaggio accumulato dalla penisola nei secoli di decadenza, e di inserirla nuovamente, con la forza di una cultura rinnovata ma anche di una potenza politico-militare che solo il nuovo Stato poteva assicurare, tra i Paesi più avanzati dal punto di vista civile e politico».
Il compimento dell’immane sforzo fu la partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra. Alla domanda, che risuona oggi dominante nel centenario della Prima guerra mondiale, «se tanta somma di perdite umane e di sacrifici fosse in sé necessaria e giustificata dai risultati, o se invece quella guerra non debba giudicarsi colpa ed errore fatale di uomini e di classi dirigenti, o addirittura prodotto di un accecamento suicida da parte dei popoli più avanzati e civili del mondo» – Romeo rispondeva nel 1968, che tale domanda, pur nascendo «indubbiamente da autentiche e insopprimibili esigenze della coscienza civile e morale, non può avere risposta soddisfacente sul terreno storico», perché le ipotesi di un diverso corso degli eventi «avrebbero per sostegno solo il sussidio dell’immaginazione». È invece compito dello storico di dirci «che cosa precisamente quell’evento sia stato, e quali effetti da esso derivarono, che sono ancora tanta parte della nostra realtà di oggi».
L’Italia unita vinse la prova della prima esperienza collettiva, che coinvolse gli italiani in un’atroce esperienza di vita e di morte, giustificata con i valori della nazione e della patria. La prova fu superata, ma l’intero corpo sociale fu profondamente sconquassato: nel momento in cui si celebrò il compimento dell’unità, gli italiani si disunirono iniziando una guerra civile, che sarebbe durata trent’anni. Fu la prima profonda frattura nella fragile coscienza nazionale, alla quale seguì la più profonda frattura della Seconda guerra mondiale. Se vivo, Romeo vedrebbe l’Italia di oggi di fronte a una nuova e grave prova per la sua consistenza come Stato nazionale.
Questa volta, fortunatamente, non si tratta di una prova bellica: ma, sfortunatamente, è una prova che, se non superata, potrebbe avere conseguenze paragonabili a quelle di una disfatta in guerra. Immaginiamo che questo sarebbe stato oggi l’ammonimento di Romeo.