Renato Fucini Antonio Ciseri 1878
Il 25 febbraio di cento anni fa moriva il poeta e scrittore de «Le veglie di Neri» .
Raccontò una Toscana contadina e familiare in uno scenario di realismo anche feroce
Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino19 febbraio 2021
Il 10 dicembre 1869, a Pisa, l’Arno si scatenò. Una piena quale non si era mai vista dal 1777. Strade invase dall’acqua, parapetti crollati, vittime. Le operazioni di soccorso furono dirette dal generale Nino Bixio, che stabilì la sua sede nel locale più amato dalla goliardia: il Caffè dell’Ussero, affacciato sui Lungarni. Tra gli studenti che davano una mano per fronteggiare i danni, ce n’era uno, il ventiseienne Renato Fucini che, nell’occasione, scrisse il suo primo sonetto in vernacolo. Però, quella poesia non la conservò e infatti non figura tra i Cento sonetti di Neri Tanfucio (anagramma di Renato Fucini), pubblicati in prima edizione nel 1872 e andati immediatamente a ruba.
Un autore tutto da rileggere, Fucini, e i cent’anni dalla morte (25 febbraio 1921), sono una bella occasione per sottrarlo al giudizio di tanti critici con la puzza sotto il naso, che tendono a svalutarne i sonetti in vernacolo pisano contrapponendogli quelli in romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli.
E considerano i suoi racconti (la raccolta più celebre è Le veglie di Neri) come bozzetti, vivaci e coloriti, sì, ma poca cosa dal punto di vista della cultura «alta», dove parole come «poetica» e «ideologia» la fanno da padrone. E invece Fucini sarebbe privo di respiro letterario e, ideologicamente, più o meno, un borghese benpensante che trincia sentenze paternaliste.
Non è così. Dietro e dentro l’opera di Fucini ci sono vita e idee con tanto di imprimatur paterno. Il babbo, David, medico, è un fervente mazziniano anticlericale che ce l’ha a morte con moderati e reazionari, si fa conoscere come giacobino, perde il posto, si porta dietro moglie e figlio da Monterotondo Marittimo — dove Renato nasce l’8 aprile del 1843 — a Campiglia, a Livorno, a Dianella, a Empoli e infine a Vinci dove ottiene una condotta. Renato respira umori e malumori paterni, è uno scolaro che vuol dire le sue ragioni e guai se un prof lo prende a cinghiate (allora in uso). Tanto che una volta si difende inalberando un panchetto.
Nessuno poi si azzardi a parlar male di Garibaldi: ci prova un gruppetto di reazionari una sera, in un’osteria, e lui li assale con una paletta del braciere. A Pisa dal 1859, se la gode. Università, Caffè dell’Ussero, goliardia, bevute, canti per le strade, il viziaccio del gioco (in una «Veglia», evocherà un episodio della scioperata vita all’ombra della Torre, quando resta senza la «mesata» per una scommessa, il babbo gliela ridà, ma affibbiandogli un sermoncino di quelli che non si scordano).
Poi, però, bisogna mettere la testa a posto. E Renato nel 1863 si laurea in Agraria, nel 1865 incomincia a lavorare in uno studio tecnico della Firenze Capitale, nel 1867 sposa Emma Roster, che gli darà due figlie: Ida e Rita. Negli anni successivi sarà anche professore di «belle lettere» a Pistoia (cattedra ottenuta per «titoli»: i suoi libri) e successivamente girerà per la Toscana come ispettore scolastico.
Vasto il giro delle conoscenze. A Firenze, al Caffè Michelangiolo, ha fatto amicizia con i Macchiaioli, da Fattori a Signorini, e al Caffè dei Risorti (era di fronte a Palazzo Medici Riccardi) con Collodi e De Amicis. Tra un impiego e l’altro, si è fatto conoscere anche a Napoli, dove, su segnalazione dello storico Pasquale Villari, tra l’aprile e il maggio del 1877, ha scritto un interessante reportage sulle condizioni economico-sociali della città (Napoli a occhio nudo), ricevendo i complimenti da meridionalisti come Giustino Fortunato e Silvio Spaventa.
Ma parliamo adesso dei Sonetti e delle Veglie che stanno al centro delle Opere (riproposte dalle Lettere, nel 2011, a cura di Davide Puccini). Vestendo i panni del suo «alter ego» Neri (diminutivo di Ranieri, santo patrono di Pisa), Fucini esprime ogni tipo di potenzialità, dal comico al patetico. E chi l’accusa di essere spesso becero e altrettanto spesso sdolcinato, non capisce che la sua poesia si nutre di vero, bello o brutto che sia, e che in lui il popolo-popolaccio di Pisa si rivela com’è: capace di arrabbiarsi con Dio per tutti i malanni che ci manda, di mandare al diavolo il governo e le sue istituzioni colpevoli di incompetenza o di corruzione, di celebrare i pisani come i migliori del mondo e di prendersela con quel «lecchino» di Dante che infuria sulla Città per la faccenda del Conte Ugolino, di raccontare le tombole, le feste da ballo, le miserie senza nome, i preti intriganti o furbacchioni, i mangiapane a ufo di tutte le risme, i giudici che non sanno giudicare, i bimbi disobbedienti, le vecchie beghine, i mariti urloni, le mogli petulanti… L’umano, troppo umano, di sempre.
Questo «ghignetto» etrusco che non sposa «cause» torna nella prosa delle Veglie, pubblicate nel 1882: quattordici racconti di vita toscana con scene di vita familiare, scampagnate, mangiate, ricordi, ingenuità o cattiverie contadine, litigi per una bischerata, destini disgraziati di poveracci alla ventura (Vanno in Maremma, Il matto delle Giuncaie). Si sorride, ci si commuove, si ride amaro. In uno scenario di realismo anche feroce, ma con un retrogusto di ideali smarriti.
Eredità del su’ babbo e della su’ mamma ricordati con tenerezza nella «Dèdia» dei Sonetti.