29 agosto di 150 anni fa: la versione ufficiale dà il (de)merito a un tenente dell’esercito sabaudo, ma in Aspromonte si sussurra un’altra storia
Mimmo Cangemi * La Stampa 28 agosto
Il 29 agosto di 150 anni fa, lo scontro, sulle alture di Sant’Eufemia d’Aspromonte, tra le camicie rosse di Garibaldi e l’esercito piemontese del fresco Regno d’Italia. Il Mausoleo eretto a ricordo s’incastona in una fitta pineta, alberi dai fusti diritti, talmente alti che si sporgono a sbirciare oltre le nubi, che pungono il cielo. Per cingere il tronco di quello dove fu poggiato l’eroe ferito non bastano le braccia, larghe e a catena, di tre uomini – avrà almeno duecento cerchi di vita. Giasone, il solo su cui c’è certezza che l’abbia scalato, garantisce che da lassù l’occhio abbraccia il Tirreno e lo Ionio e coglie persino le acque oltre il triangolo di Sicilia sfuggente sinuoso in due direzioni e oltre le isole Eolie. Ma Giasone giura anche d’essersi imbattuto in uno scurzuni , un serpente con la testa di vacca. E allora… In terra, un tappeto di aghi impedisce le erbe. Attorno, la faggeta perforata da polverose lame di luce che si piantano al suolo – diventerà uno spettacolo fantastico e irreale in autunno, quando si tingerà dei vividi colori della morte.
Appena penso a Garibaldi in Aspromonte, nella mente subito mi si staglia Cerza, un personaggio dei miei ricordi più antichi. Perché trovo una beffarda assonanza tra un episodio che lo riguarda e quanto capitò all’eroe quel 29 agosto. Cerza apparteneva all’onorata società. In un’afosa mattina di luglio del 1952, domenica, spuntò in piazza da un vicolo del Paese Basso, nei cui gironi più infimi viveva in una lurida baracca assieme a svariati animali più o meno domestici, compreso un maiale nel cui destino non stava scritto che gli albeggiasse il giorno di Santo Stefano, e assieme a una processione di figli di ogni taglia e che uscivano a turno, non essendoci vestiario bastevole per tutti quanti. Gli cadde l’occhio su un tizio mai visto, un forestiero elegante, dai capelli impomatati e con una riga tracciata con lo squadro, intento a passeggiare, solitario e altero, su e giù lungo il marciapiedi del Corso, e che fumava sigarette con il filtro – le cedeva a metà e le scagliava via con uno schiocco tra pollice e medio, poi le spiaccicava con il piede, perché altri non se ne approfittassero.
Cerza gli interruppe i passi, gli perforò l’anima puntandogli due feroci occhi ristretti a fessura e, senza metterci lingua, gli appioppò in pieno viso due sventagliate, andata e ritorno, una di palmo e una di dorso, che rimbombarono più dei colpi di mortaio che annunciano l’inizio dei fuochi d’artificio – Cerza andava in giro con mani grandi quanto vassoi di portata – e che lo stesero lungo, immobile, senza che ci fosse bisogno del conteggio dell’arbitro per dichiararlo sconfitto. Quando i paesani gli chiesero ragione, «si papariava» (si pavoneggiava), rispose, trovando pieno consenso, lui, e pieno apprezzamento, il rimedio adottato.
Ed ecco l’assonanza: Cerza non sapeva che, novant’anni prima, il 29 agosto 1862, il brigante Tato s’era disturbato allo stesso modo, le bu-della gli si erano aggrovigliate piegandolo su spasmi dolorosi, mentre, nascosto tra i faggi, in pieno Aspromonte, osservava un uomo, barbuto e in camicia rossa, agitare la sciabola e frapporsi impavido al guerreggiare tra le truppe dell’esercito regolare e altre, pure in camicia rossa, dalle cui fila si sollevava di continuo il grido «o Roma o morte». La battaglia non era granché, ne aveva viste, combattute e vinte di più cruente, Tato. C’era però chi crollava giù inerme, chi piangeva lacrime e gemiti, chi invocava aiuto, chi esplodeva un nome, una bestemmia. Su quel tale non uno che puntasse l’arma, nonostante si esponesse incurante del pericolo e «smettete, smettete, siamo tutti italiani» intimasse imperioso a entrambi gli eserciti.
Tato pensò che tanta spavalderia e tanta esibizione non stavano bene, offendevano anzi, che l’uomo era troppo borioso e pieno di sé, che si offriva al fuoco perché sicuro che non avrebbero osato sparargli, che insomma, come sarebbe stato, novant’anni dopo, per il forestiero di Cerza. Questo, il suo stomaco non era in grado di digerirlo: se c’era uno che si poteva papariare su quelle montagne, quello era lui, Tato. Così, si ritrovò la testa eroica collimata nel mirino del fucile e il dito sul grilletto. Ma se ne pentì, abbassò l’arma fin giù sul piede e lì sparò un unico colpo, centrandoglielo. Era sufficiente, non meritava d’essere ucciso solo perché si papariava . La morte sarebbe invece stata il giusto castigo per le camicie rosse che avevano razziato gli animali dei compari di Pedavoli – lì nel bosco assieme a lui e ai suoi uomini. Andarli a riconoscere, però, in tutta quella confusione…
Appena colpito cotanto piede, la battaglia s’era consumata in un lampo, loro s’erano dileguati, i pedavoliti avevano ottenuto una vendetta che, se non i danni, compensava l’orgoglio, Tato aveva attizzato una gloria già ardente. Garibaldi aveva poi passato la notte da prigioniero, nella masseria del sinopolito Angelo Violi, detto u pulici – la pulce.
Da 150 anni il vento questo si porta appresso dentro le folate. Generazioni di bambini lo hanno ascoltato favola attorno ai bracieri e ai focolai. La storia però dice tutt’altro. E appunta la medaglia al (de)merito sul petto del tenente bersagliere Luigi Ferrari. La storia, e Arrigo Petacco, di cui il Ferrari fu trisavolo. Mi trema la vita al pensiero che, svelando una leggenda partita da lontano e giunta intatta fino ai giorni nostri, ho avvolto di un alone di dubbio la Storia, che è Arrigo Petacco – lui non adombra la versione ufficiale, anche avallata dalla scomparsa, che forse fu suicidio, del tenente Ferrari, quando non sopportò più il dileggio e le offese, per il ferimento dell’eroe più amato, dei suoi concittadini di Castelnuovo Magra, che pur lo avevano eletto Sindaco.
Altro però a noi sussurra il vento. E da queste parti ci fidiamo del vento, sa essere più sincero degli uomini. Se nulla vi è da obiettare ad Arrigo Petacco riguardo l’aver individuato nel Ferrari il militare che sparò su Garibaldi, pure non si può non tener conto della leggendaria abilità nelle armi di Tato. E questo induce a credere che, se Tato e Ferrari spararono entrambi su Garibaldi, che fu attinto da una sola pallottola, di sicuro spetta a Tato l’onore d’averlo centrato.
Quel giorno caddero sette soldati regolari e cinque garibaldini. Tempo dopo, furono fucilati i bersaglieri passati, ai primi spari, dalla parte di Garibaldi. Né Tato durò a lungo: catturato dai piemontesi, gli fu mozzata la testa, poi affissa per monito nella piazza del suo paese.
Un altro sussurro del vento dissacra che la fotografia esposta nel Mausoleo, quella che l’Italia accetta come originale – apposti sopra, vi sono infatti un timbro di ufficialità e la firma di Bettino Craxi – sarebbe invece un falso coniato trent’anni dopo. Non si tratterebbe di Garibaldi, bensì di Micu u curcio – il corto – da Sinopoli, vestito e messo in posa come l’Eroe dei due mondi, per un’altra beffa alla storia attuata da arguti femioti e sinopoliti. In effetti, l’immagine poco somiglia ad altre di Garibaldi scattate nello stesso periodo: in essa appare più vecchio dei suoi 57 anni e più basso. Inoltre, nel 1862 la fotografia era agli albori. Difficile credere che ci fosse un fotografo al seguito. Due anni prima, le azioni dei Mille erano state immortalate solo dalle stampe di un inglese.
Sono andato in quei luoghi, appena mezz’ora di macchina da casa. Ho trovato il vento, il sussurro del vento, l’unico a conoscere la verità. Ho provato a cogliere dentro le folate gli echi della battaglia e il ghigno sgangherato di Tato, tronfio della vendetta – in tanti assicurano di averli sentiti distintamente, più volte. Ho teso a lungo le orecchie: nulla, se non la strisciante e irriverente risata del vento.
* Mimmo Gangemi è nato nel 1950 a Santa Cristina d’Aspromonte. È ingegnere.
Per Einaudi Stile libero ha pubblicato Il giudice meschino (2009) e La signora Ellis Island (2011).