Per prima è venuta la lingua. Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale. «Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt», scriveva Isidoro di Siviglia: sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue. Gli ambiti in cui si sono realizzati valori in grado di unire piú di ogni cosa l’Italia e tali da costituire la linea maestra di un’aspirazione unitaria non sono stati tanto principî oggettivi o materiali, l’etnia, l’economia, il mercato, il territorio, una comunità di costumi, la politica ideale dell’uguaglianza e della democrazia, l’unità delle istituzioni giuridiche, il principio della tolleranza o altro ancora. La coscienza e la volontà di un’unione si sono basate soprattutto su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio. «È un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa» il popolo italiano, ribadirà Gioberti nel secolo dell’Unità.
Non è stata dunque una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione.
Gian Luigi Beccaria
A centocinquant’anni dall’Unità, l’Italia sembra ancora un paese fragile: le differenze economiche, sociali, culturali si impongono con forza, il concetto stesso di patria appare svuotato, e il paese è addirittura percorso da tensioni separatiste. Ma c’è qualcosa in cui è possibile riconoscere quel senso di coesione e appartenenza che fa una nazione: la nostra lingua. La sostanza linguistica è il collante che ci tiene insieme ed è il materiale sul quale fondiamo la nostra identità di italiani.
Da Dante alla televisione, Gian Luigi Beccaria ci mostra il terreno nel quale affondano le nostre radici, e ripercorre l’avventura di una lingua che sa tenersi in equilibrio tra invenzione e tradizione, nel segno di una salda, sorprendente continuità.