L’Italia del Risorgimento documentata dal “rivoluzionario della macchia”. È la biografia pittorica di Giovanni Fattori, alla ricerca del vero tra luci e ombre di un Paese in (ri)nascita.
Serena Tacchini ArtTribune 20 novembre
RIVOLUZIONE IN PUNTA DI PENNELLO
La bellezza spavalda di una giovane anima rivoluzionaria: i capelli inquieti e un cipiglio di rimprovero. L’Autoritratto di Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) apre la porta allo spettatore per guidarlo attraverso luoghi e speranze di un’Italia che (in)sorge, satura di sogni unitari e audaci ideali di progresso.
Era il decennio 1850-60 nella Firenze liberale dei granduchi, quando la sovversiva fucina del Caffè Michelangelo ardeva di antiaccademismo e ribellione: il maestro livornese si ritrae mentre impugna il pennello come un’arma, la stessa con la quale ha compiuto la rivoluzione sulla tela, in nome del sentimento della natura e del vero.
La mostra a Palazzo Zabarella esplora la personalità schiva del caposcuola dei Macchiaioli, all’avanguardia nella tecnica e nella visione: un artista che ha fatto della fede nel cambiamento di un’epoca il proprio talento.
IL MARE SU UNA SCATOLA DI SIGARI
Fattori affida le pose di atavica nobiltà delle sue contadine a un’orizzontalità panoramica pervasa di lirismo: Le macchiaiole sono madonne quattrocentesche, Le acquaiole sono sospese nella campagna livornese, silenziosa e ancestrale alla luce mattutina; la corsa a briglie sciolte dei Cavalli in Tombolo infrange l’equilibrio di una radura incantata.
La metrica del “cantore del vero” sfalda i confini delle vedute sulle tavolette, leggere come poesie sussurrate, disarmanti nella loro evocatività. Sotto la tenda sul mare di Palmieri il tempo rallenta: le signore senza volto sono le macchie di “verità pura” che il pittore va cercando, catturate su una scatola di sigari. La Maremma, selvaggia e inaridita, è paesaggio dell’anima.
Le opere di Fattori riempiono la stanza di una quiete assorta, di un tempo disteso; il tutto sotto lo sguardo placido dell’ossuto Pio bove, iconografia che il cultore della macchia riprende dal sonetto di Carducci per entrare nel Novecento con un capolavoro dalla monumentale sacralità.
UN “PACIFICO INNAMORATO DELLE BATTAGLIE”
Nella bufera delle guerre d’indipendenza trova l’umanità celata nella violenza: il Fattori militante ritaglia per sé un posto privilegiato nelle retrovie, spettatore delle fragilità umane. Il “pacifico innamorato delle battaglie” predilige la storia con la “s” minuscola, di cui stende una cronaca quotidiana e antieroica. Il suo è il mondo dei vinti e degli ultimi che rimarranno tali: senza retorica né sentimentalismo, documenta la solitudine di anonimi soldati senza medaglie, il ritorno dei feriti a battaglia terminata, i carri dei soccorsi.
La sua indagine approda negli Anni Settanta all’annullamento dello spazio: Il muro bianco sorge in un “deserto dei Tartari” abbacinante e sospeso, cui la prospettiva tagliente come un coccio di bottiglia conferisce la massima astrazione. L’orizzonte scolora al sole nella polvere irreale di un mezzogiorno senza lancette. Sull’intonaco calcinato si proietta l’ombra della solitudine della vedetta: e l’attimo fugace si cristallizza in eterno.
Fattori è il lucido portavoce della delusione nazionale: le generazioni che si sono battute per unificare l’Italia sono state disarcionate insieme ai loro ideali di giustizia, nel turbinio di eventi che non sono in grado di gestire. Così rovina a terra Lo staffato e con lui tutti i suoi valori: una manciata di polvere insanguinata, trascinato verso il suo destino da un cavallo nero come la notte.