Nel centenario della morte di Giovanni Pascoli pubblichiamo volentieri l’intervento di Alessandra Campagnano alla commemorazione del poeta, promossa dai docenti e studenti del Liceo linguistico-pedagogico Pascoli di Firenze il 23 maggio all’Istituto Stensen di Firenze
La figura di Giovanni Pascoli (1855-1912) è stata legata a stereotipi – “il cantore della cavallina storna”, “il fanciullino”, “il poeta delle piccole cose” – che ne hanno condizionato la comprensione. A questo si aggiunga che molto di quello che sappiamo è ricavato dalla biografia Lungo la vita di Giovanni Pascoli scritta dalla sorella Maria che tese a censurare quanto della vita del poeta poteva non apparire consono a un’immagine conformista.
Pascoli invece visse nel suo tempo in modo personale e originale. Dopo la morte violenta del padre e i lutti familiari successivi cominciò per lui e per i fratelli un periodo molto duro. Il padre, Ruggero Pascoli, in gioventù era stato repubblicano e aveva combattuto per la Repubblica Romana. Dopo la fine della Repubblica Romana aveva seguito la parabola di tanti democratici: si era sposato, aveva dato vita a una bella famiglia, aveva sostituito lo zio nell’incarico di amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Non aveva abbandonato l’impegno pubblico, ma nel comune di S. Mauro aveva ricoperto molti incarichi. La sua morte rimase senza colpevoli, le indagini presero presto a considerare colpevoli le Società Segrete di Cesena, come si evince dal rapporto riservato che il Prefetto di Forlì inviò al Ministero il 16 agosto 1867, sei giorni dopo la morte di Ruggero Pascoli. Dal rapporto appare chiaro che la Romagna era una terra percorsa da fremiti di rivolta dovuti alle condizioni economiche e sociali della maggior parte della popolazione.
Giovanni Pascoli, grazie anche a borse di studio per meriti scolastici, riuscì a completare il liceo e nell’anno accademici 1872-’73 – sempre grazie a una borsa di studio per la quale era esaminatore il Carducci – si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Nello stesso periodo Pascoli si dedicò all’attività politica seguendo Andrea Costa che allora in Romagna era il referente di Bakunin. Nel 1874 Costa fu arrestato dopo il fallimento dei moti anarchici di Imola e nel settembre del 1879 Pascoli fu arrestato per aver partecipato a una manifestazione in favore di anarchici arrestati, ma nel dicembre venne prosciolto e liberato.
Nel 1879 Costa, uscito dal carcere e trasferitosi in Svizzera, da Lugano pubblicò sul periodico milanese “La Plebe” (organo della Federazione Alta Italia dell’Associazione dei Lavoratori) la lettera Ai miei amici di Romagna. È un documento significativo perché segnò l’abbandono della “propaganda per mezzo dei fatti” per passare a un lavoro fatto di diffusione di principi, ideali, in poche parole di educazione, indubbiamente di minore impatto immediato, ma destinato a risultati più duraturi. È storia nota, nel 1882 Costa fu il primo socialista eletto alla Camera e i movimenti democratici in Italia cominciarono a preferire la lotta con strumenti legali all’eversione e alla violenza. Pascoli seguì le indicazioni di Costa, riprese gli studi e nel 1882 si laureò. Il rapporto tra i due non si interruppe, anche se Pascoli smise di fare politica attiva, tanto che nel 1910 compose l’epigrafe per la tomba dell’amico, morto a Imola nel 1910.
Nel settembre del 1882, subito dopo essersi laureato e prima di cominciare a Matera la sua carriera di docente nei licei e poi all’università, Pascoli fu iniziato alla Massoneria nella loggia Rizzoli di Bologna alla quale appartenevano anche Carducci e Aurelio Saffi, il triumviro della Repubblica Romana. Di questa scelta è conservato presso l’archivio del GOI a Roma il “testamento massonico”, di cui è rintracciabile attraverso Internet la copertina. Si tratta di un foglio a righe di forma triangolare, ingiallito dal tempo, con le risposte alle domande di ammissione, firmato e datato dal poeta. Le domande e le risposte sono: “Che cosa deve l’uomo alla Patria? La vita.” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso la Umanità? D’amarla.” “Quali sono i doveri dell’Uomo verso sé stesso? Di rispettarsi.” Si tratta di affermazioni che non rimasero lettera morta se si ripensa a tutta la produzione poetica successiva, anche se i suoi rapporti con l’istituzione massonica non furono sempre facili. Indubbiamente gli ideali umanitari di stampo deistico si intrecciarono con la ricerca e l’espressione dei simboli che circondano l’uomo. Probabilmente attraverso la ricerca spirituale massonica come attraverso il verbo socialista Pascoli cercava anche di dare uno scopo alla sua esistenza e di trovare una sua identità di uomo e di intellettuale.
L’interruzione dell’attività politica attiva si trasformava quindi in un’azione pedagogica nella quale cercavano di ricomporsi i tentativi della ricerca dell’identità e del ruolo dell’intellettuale che si espressero con le prime prove poetiche, pubblicate nel 1901 nella raccolta Myricae. Dopo l’arresto e l’assoluzione il senso di delusione per la sconfitta dell’ala spontaneista e umanitaria del movimento democratico e della ingiustizia subita si fuse con il sentimento di delusione personale per gli eventi luttuosi della sua famiglia e lo portarono a privilegiare quella forma poetica «che ha tema umile, che cresce nell’ombra e nel silenzio», come lui stesso ebbe a definirla[1]. D’altra parte la personalità di Carducci era, sia in positivo che in negativo, un punto di riferimento: Carducci, ormai abbandonati gli ideali repubblicani della sua giovinezza, si era assunto il ruolo di poeta-vate, cantore della nuova Italia purtroppo non degna del suo passato glorioso. A fronte del tono aulico del maestro, Pascoli sviluppò una poesia intimistica che recuperava il mondo contadino nel quale era nato collegandolo alla tradizione classica virgiliana. Non è un mondo idealizzato quello contadino di Pascoli, in esso ritroviamo il dolore, l’angoscia esistenziale che si esprimono in forme poetiche e lessicali del tutto nuove, che fanno del poeta di S. Mauro una delle voci più significative del decadentismo italiano. Non solo, l’attenzione al mondo contadino che dalle Myricae si evolve nei Canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, non è paternalistica, ma si potrebbe dire che gli ideali di giustizia sociale della sua giovinezza, quelli umanitaristici massonici e la sua condizione esistenziale si fondono lasciando aperta la strada sia al recupero di forme classiche, che si espressero nelle composizioni in lingua latina, sia a forme sperimentali che lo avvicinarono alle voci europee più innovative del suo tempo.
Nello stesso tempo l’esperienza professionale di Pascoli non si limitò al raggio d’influenza del magistero carducciano di Bologna, ma si arricchì della conoscenza di nuove realtà: dalla prima cattedra al liceo di Matera passò a Massa, poi a Livorno, di qui a Roma come comandato al Ministero della Pubblica Istruzione e da Roma all’università di Messina. In queste vicende si inserì la ricostituzione del «nido» con le sorelle Ida e Maria e poi il dolore per quello che il poeta visse come un tradimento, ossia il matrimonio della sorella Ida. Determinante fu anche la frequente permanenza a Castelvecchio, nel comune di Barga, a cui fanno riferimento I canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, quando il poeta fu trasferito all’università di Pisa.
Siamo ormai nell’età dell’imperialismo, in tutti i paesi europei gli ideali romantici di fratellanza delle nazioni degenerarono in nazionalismo, nella presunzione che la propria nazione fosse superiore alle altre e avesse il diritto di imporre la propria supremazia sui popoli più arretrati. Il nazionalismo esasperato non fu appannaggio soltanto delle classi egemoni, ma finì per coinvolgere anche le classi subalterne, nonostante la diffusione e il successo degli ideali della II Internazionale dei partiti socialisti[2]. Pascoli risentì di questo clima e del relativo dibattito culturale. Aveva lasciato l’impegno politico militante, di partito, e non si riconosceva nelle posizioni marxiste che prevalevano nel dibattito interno ai partiti socialisti. Non accettava il concetto di lotta fra le classi, per lui il socialismo aveva un carattere umanitario. L’aver conosciuto direttamente le diverse situazioni dell’Italia, in quegli anni lacerata anche dai drammi dell’emigrazione, portava Pascoli a vedere l’Italia come un paese debole, destinato a essere assoggettato dai più forti. In una lettera all’amico Luigi Mercatelli del 30 ottobre 1899 così definiva il suo pensiero: “Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma, ahimè, esso fu reso decrepito dai suoi teorici.”[3] Come si può vedere, il concetto di “nazioni proletarie” è già presente e il poeta esprimeva posizioni che al tempo della guerra italo-turca furono condivise anche da altri esponenti politici di sinistra, come Arturo Labriola. La giustificazione era che il dominio italiano avrebbe portato la civiltà, laddove il dominio ottomano aveva lasciato quei popoli nell’arretratezza. Questa ingenua (?) speranza fu poi spazzata via dalla dura realtà delle repressioni di cui anche l’Italia successivamente si macchiò, ma sul carattere di oppressione che anche la conquista italiana inevitabilmente avrebbe avuto, pochi al momento riflettevano.
All’anno precedente risale la pubblicazione di Minerva oscura. È un’opera di esegesi dantesca di carattere mistico-simbolico che ne mostra l’appartenenza alla cultura mistico-simbolista con sfumature politico-esoteriche, che ebbe sempre molto interesse per Dante e di cui il Pascoli fu un esponente non secondario come le scelte di modestia georgica della sua vita farebbero pensare[4]. La sua interpretazione della Commedia tende a sottrarla dalla sfera della storicità e dell’allegorismo per portarla in quella della perenne simbolicità della poesia[5]. La stessa poetica del fanciullino appare dunque la sintesi di suggestioni classiche e di riflessioni misticheggianti che fanno della poesia un insieme di simboli da intuire e decodificare.
La carriera accademica di Pascoli proseguiva con successo: dopo l’incarico all’università di Pisa, a Bologna nel 1907 divenne docente di Letteratura italiana al posto di Carducci. Le posizioni critiche sue e di Carducci erano molto distanti ma ciò non impedì che da questo momento si accentuasse sempre più il carattere pubblico delle sue prose e delle sue poesie. Indubbiamente le Canzoni di Re Enzo, l’Inno a Roma e l’Inno a Torino risentivano della stanchezza dell’ispirazione, mentre le condizioni di salute del poeta peggioravano inesorabilmente.
L’ultimo discorso La grande proletaria si è mossa – tenuto il 21 novembre 1911 al Teatro comunale di Barga – ha avuto quasi sempre critiche negative che si sono riverberate anche sulla precedente produzione poetica pascoliana, presentandola come il naturale risultato di una poetica e soprattutto di una ideologia di stampo piccolo-borghese, caratteristica dell’Italia di fine Ottocento, che purtroppo avrebbe portato al bagno di sangue della I guerra mondiale e alle successive conseguenze. Non dimentichiamo che pochi mesi dopo – il 6 aprile 1912 – il poeta sarebbe morto e quindi non possiamo nemmeno immaginare come il suo pensiero si sarebbe evoluto o involuto. Ma tutta la sua poesia, anche le composizioni latine, ci mostrano un poeta non guerrafondaio, che nel 1904 esortava: “Uomini, pace! Nella prona terra/ troppo è il mistero: e solo chi procaccia/ d’aver fratelli in suo timor non erra. // Pace, fratelli! E fate che le braccia/ ch’ora o poi tenderete ai più vicini,/ non sappiano la lotta e la minaccia. // E buoni veda voi dormir nei lini/ placidi e bianchi, quando non intesa,/ quando non vista, sopra voi si chini // la Morte con la sua lampada accesa.”[6]
6) Giovanni Pascoli, I due fanciulli. Il grido “Pace, fratelli!” è l’epigrafe della nostra scuola
Alessandra Campagnano
[1] Mario Tropea, Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana, Laterza, Bari, 1978, vol. 59, p. 7.
[2] È quel fenomeno che ha ben documentato lo storico George Mosse (1918-1999) nel suo celebre saggio La nazionalizzazione delle masse.
[3] In Letteratura italiana…cit., p. 62.
[4] Cfr. Letteratura italiana..cit., p. 69.
[5] Mario Luzi, Giovanni Pascoli, in Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1968, vol. VIII, p.808.
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