LETTERE AL CORRIERE
Corriere della Sera 12 Febbraio 2020
Caro Aldo, il 10 febbraio è stata la Giornata del Ricordo delle Foibe, una ricorrenza che celebro, anche se stenta a far presa sulla sensibilità pubblica, perché per troppo tempo rimossa. Eppure è un Olocausto nazionale, visto che si tratta del massacro voluto per cancellare una popolazione. Quella italiana, presente principalmente nella Dalmazia, accusata dalle squadre di Tito di aver assistito con indifferenza — e in molti casi con collaborazionismo — alla persecuzione che per anni i nazifascisti avevano condotto martoriando le popolazioni slave. Finito il fascismo, la vendetta dei «titini» dilagò coinvolgendo migliaia di persone innocenti, oppresse prima dal fascismo e poi dal comunismo. Chi non morì, dovette scappare, patendo non solo le sofferenze dell’esodo, ma soprattutto il pregiudizio d’aver appoggiato il fascismo. Massimo Marnetto
Caro Massimo, è importante chiarire un punto: nelle foibe non finirono i responsabili della durissima occupazione italo-tedesca della Jugoslavia; finirono persone (tra cui molti antifascisti non comunisti) che avevano l’unica colpa di essere italiani. Si trattò di una «pulizia etnica» che anticipò tragicamente quelle viste poi nella guerra civile jugoslava degli anni 90. È vero quel che lei dice: per troppo tempo si è parlato poco delle foibe e dell’esodo di istriani e dalmati. Ora è il momento di farlo. Il giorno del ricordo non è una «cosa di destra», così come la giornata della memoria non è una «cosa di sinistra». Non credo molto alla memoria condivisa. Di memoria ognuno ha la sua, e non la può cambiare. La memoria di chi rifiutò gli esuli non può essere la stessa di chi li accolse; così come la memoria di chi consegnò gli ebrei ai nazisti non può essere la stessa di chi rischiò la vita per proteggerli. Condivisi possono e debbono essere i valori: rifiuto di ogni totalitarismo; difesa della libertà e della democrazia; orgoglio di essere italiani. Per questo dovremmo leggere ai nostri ragazzi, caro Massimo, la lettera che Nazario Sauro scrisse al figlio prima di essere impiccato dagli austriaci. E ricordare che, tra le cose più care, gli esuli portarono con sé anche la sua bara. Aldo Cazzullo