Kiev oggi più che mai si sente europea e guarda ai valori dell’occidente come modello da seguire
«A cosa sarebbe servito il sacrificio di mio fratello Ruslan, morto a 43 anni col mitra in mano sul fronte di Bakhmut in novembre? Per poi lasciare a Putin la nostra terra, quando comunque sappiamo benissimo che quel pazzo criminale mira a prendersi tutta l’Ucraina e molto altro?», diceva due giorni fa Irina, 30 anni, cassiera in un supermercato di Kharkiv, incontrata mentre riparava i danni provocati dall’ennesimo drone russo caduto sei ore prima nel cuore delle zone abitate. Poco lontano, i proprietari del ristorante georgiano Kolcha stavano a loro volta cercando di sostituire i vetri e ripristinando la corrente. «Non si molla neppure di un centimetro, la guerra continua», diceva la 34enne Anastasia, che ha due fratelli soldati nelle trincee di Kherson.
Difficile trovare opinioni differenti, sia tra i civili che tra i soldati. E qui non siamo in Russia: nessuno arresta chi critica Zelensky e il suo governo, o se la prende con gli ufficiali del reclutamento che accettano mazzette per non mandare in prima linea. I blogger scrivono più o meno ciò che credono. Ovviamente non si può essere palesemente filorussi, si passerebbe per agenti nemici: l’Ucraina è stata aggredita e vigono le leggi eccezionali dello stato di guerra.
Eppure, la stampa parla abbastanza apertamente dello scontro tra Zelensky e il capo di Stato maggiore Zaluzhny, i commentatori speculano sulle supposte gelosie del presidente nei confronti del suo soldato più popolare e sui possibili candidati alla testa dell’esercito. Anche la questione sull’opportunità delle elezioni è stata pubblicamente dibattuta e ben pochi credono che si possa votare mentre circa 8 milioni di cittadini sono profughi all’estero, i soldati restano impegnati sui campi di battaglia e nelle zone occupate risulterebbe impossibile andare alle urne, rappresenterebbe il riconoscimento politico della vittoria russa.
Ma chi tra le nostre opinioni pubbliche europee crede che gli ucraini dopo due anni di guerra siano ormai usurati, demotivati e disposti in massa al compromesso con Mosca ha come minimo fatto i conti senza l’oste. «Gli ultimi sondaggi pubblicati dalla società indipendente Rating Group riportano che il 63 per cento della nostra popolazione è contraria a lasciare le terre occupate da Putin e l’88 per cento crede ancora nella nostra vittoria mirata a tornare sui confini del 1991. Stimo che circa un quarto degli ucraini ad oggi sarebbe disposto a fare la pace subito lasciando ai russi ciò che ci hanno rubato con la forza dopo l’aggressione del 24 febbraio 2022», ci dice Yuliya Bidenko, docente di scienze politiche all’università di Kharkiv. Ancora lei aggiunge che proprio in questa città, che sino a due anni fa era considerata la più filorussa del Paese, l’effetto boomerang della guerra voluta da Putin ha spinto la grande maggioranza della gente ad abbracciare il nazionalismo ucraino. «Tanti ormai rifiutano di parlare russo per principio», afferma.
C’è stanchezza diffusa? Certo che c’è, la si avverte di continuo, e anche preoccupazione, dolore per i morti e i feriti, rabbia contro i casi di corruzione e, oggi molto più di prima, contro quelli che sono scappati all’estero per evitare la leva. Soprattutto si teme per la penuria di munizioni, si spera nella ripresa degli aiuti militari americani (è noto che quelli europei arrivano col contagocce), ci si chiede angosciati cosa capiterebbe con Trump presidente.
Tuttavia, non scema la spina alla resistenza. L’Ucraina oggi più che mai si sente europea, cerca solidarietà e comprensione, guarda alle nostre libertà e democrazie come modelli da seguire in alternativa radicale al totalitarismo violento degli «orchi». Solo pochi giorni fa i commentatori locali non hanno mancato di rilevare la pochezza delle dichiarazioni di Putin: due anni fa mirava ad annettersi Kiev e l’intera Ucraina in poche settimane, adesso annuncia come un trionfo la cattura di «19 case» alla periferia della cittadina di Avdiivka, mentre la sua flotta sta perdendo il controllo del Mar Nero. E tanti citano il saggio pubblicato sull’ultimo numero di Foreign Affairs dal capo della Cia, William Burns, in riferimento alla «debolezza» del leader al Cremlino. L’estate scorsa ci si era chiesti con stupore non solo se, di fronte alla marcia dei golpisti della Wagner verso la capitale russa, il re non fosse nudo, ma soprattutto come mai avesse impiegato tanto tempo a rivestirsi.
Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera febbraio 2024