Quando scrisse le parole poi musicate da Novaro non sapeva che 170 anni dopo sarebbero diventate «il canto degli italiani». E lo sono fuori da ogni retorica
Aldo Cazzullo Corriere della Sera 16 novembre
Quando Goffredo Mameli scriveva le parole del suo inno, non poteva immaginare che 170 anni dopo sarebbe davvero diventato “il canto degli italiani” anche per il Parlamento repubblicano, da lui vagheggiato fin dallo storico telegramma a Mazzini: “Roma, Repubblica, venite!”. In questo lungo tempo, l’inno di Mameli è stato denigrato in tutti i modi possibili. Si dice sia retorico. Ma le parole sono retoriche quando sono contraddette dai fatti; quando i fatti le confermano, allora sono carne e sangue. Mameli era davvero pronto alla morte; infatti morì, a ventuno anni, nella difesa di Roma, confortato da Cristina Trivulzio di Belgioioso, altra grande italiana. Non fu ferito dai francesi ma da un commilitone, si obietta. A parte il fatto che non è per nulla certo, cosa cambierebbe? Forse che i fanti morti di tifo o di febbre spagnola nella Grande Guerra e gli alpini congelati in Albania e in Russia meritano meno la nostra pietà e la nostra riconoscenza dei caduti in combattimento? Si sostiene che abbia «rubato» le parole a un religioso, padre Atanasio Canata. E se anche fosse? «Il sangue gli appartiene» direbbe Cyrano. Il punto è che il Risorgimento, di cui Mameli fu volontario e spirito libero, è molto denigrato in un tempo di autocommiserazione nazionale, alimentata dalla Rete. Eppure, goccia a goccia, l’inno di Mameli — musicato da Novaro — è penetrato nell’animo della nazione. Ciampi ha fatto molto per questo. Persino i calciatori l’hanno imparato (anche se continuano a dire «corte» invece di coorte). Si è finalmente capito quel che appariva già chiaro, che «schiava di Roma» non è l’Italia ma la vittoria. E si comincia a cantare anche la seconda strofa: «Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi». C’è voluto oltre un secolo e mezzo; ma è sempre meno vero.