Lettere a Sergio Romano Corriere della sera 2 luglio
Nel libro Caporetto di Mario Silvestri è citato Giulio Douhet e il suo atteggiamento critico sulla conduzione della Prima guerra mondiale da parte degli alti gradi delle forze armate italiane, per il quale dovette scontare un anno di carcere. Ebbe l’intuizione dell’importanza dei bombardieri nel controllo dell’aria e nell’aggressione alle difese nemiche. Potrebbe tracciarne un profilo?
Antonio Fadda
Caro Fadda,
conosciamo oggi il generale Giulio Douhet come uno dei maggiori strateghi dell’aria nel periodo che corre dalla fine della Grande guerra all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ma i suoi contemporanei sapevano che vi era un altro Douhet: il pittore e decoratore di stanze, l’autore di romanzi di gusto dannunziano e di racconti fantastorici, lo scrittore di sceneggiature cinematografiche. I due interessi — la riflessione strategica e i gusti artistico-letterari — non erano completamente separati e distinti. Lui stesso, in un articolo apparso sulla Rivista militare italiana nel 1910, ricorda un romanzo «divorato nella sua giovinezza» (I viaggi straordinari di Saturnino Farandola) «nel quale trovasi descritta una guerra e dove le fortezze vengono prese da velivoli corazzati che lasciano cadere sulle fortezze stesse grosse bombe cariche di cloroformio. Queste, scoppiando, addormentano i difensori e li abbandonano non solo inermi, ma anche insensibili, nelle mani del nemico». L’interesse per l’uso militare del cielo precede di qualche anno l’ingresso dell’Italia nella Grande guerra, ma gli studi di Douhet diventano da quel momento molto più concreti e documentati. Il logoramento delle truppe nelle trincee, l’inutile spiegamento di forze che non riescono a sopraffarsi, l’ecatombe provocata dall’uso di nuove armi, sempre più micidiali e distruttrici, lo esorta a prospettare altri scenari. I comandi riconoscono le sue qualità, ma non apprezzano i modi con cui persegue una sorta di campagna autopromozionale. Quando Douhet commette l’errore di affidare a un parlamentare e grande studioso (Gaetano Mosca), il rapporto che gli era stato chiesto da un ministro, un tribunale militare speciale lo condanna a un anno di fortezza. Ma quel «contrattempo» non segnò la fine della sua carriera. Scontata la pena, fu richiamato in servizio dopo Caporetto, ottenne la cancellazione della condanna dal suo fascicolo personale e continuò a scrivere: articoli teorici, ma anche un fantasioso romanzo, nell’autunno del 1918, in cui immaginava una fine del conflitto alquanto diversa dalla realtà. In Come finì la Grande guerra, pubblicato nel 1919, la Germania viene piegata dalla distruzione delle sue città per opera di una «Armata aerea alleata». Terminato il conflitto, era arrivato il momento di dare un corpo alle sue meditazioni strategiche. Come ricorda Luciano Bozzo, curatore dell’ultima edizione pubblicata dall’Ufficio storico della Aeronautica militare nel 2002, Il dominio dell’aria apparve nel 1921 «con il parere favorevole del generale Armando Diaz». Il libro incuriosì e attrasse anche Mussolini che gli chiese di collaborare al Popolo d’Italia. Vi furono le lodi, ma non mancarono le critiche, spesso provocate da gelosie tra le forze armate e dal timore che la creazione dell’Aeronautica militare, nel 1923, avrebbe sottratto risorse finanziarie alle altre armi. Nella sua interessante prefazione, Luciano Bozzo ricorda che la strategia aerea di Douhet era pensata soprattutto per ridurre la vulnerabilità della penisola italiana. La migliore difesa, per l’Italia, sarebbe stata la trasformazione del suo territorio in un gigantesco aeroporto che avrebbe dominato lo spazio aereo su un raggio di 1.000 km. Se quel progetto fosse stato attuato, l’Aeronautica militare sarebbe divenuta la prima Arma dello Stato. Douhet morì nel 1930, ma i suoi libri continuarono a essere pubblicati e tradotti. Non so se «bomber Harris» (Arthur Travers Harris, comandante del Bomber Command britannico dal 1942 alla fine della guerra) lo avesse letto, ma le sue bombe al fosforo sganciate su Amburgo e Dresda verso la fine del conflitto appartenevano alla logica strategica di Douhet. Dimostrano tuttavia che il domino dell’aria non basta e che anche le guerre moderne, in ultima analisi, continuano a essere fatte e vinte sul terreno.
Sergio Romano