A Voi uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita d’Europa. In altre terre segnate con limiti più incerti o interrotti, possono insorgere questioni… sulla vostra, no. Dio v’ha steso intorno linee di confine sublimi, innegabili! Giuseppe Mazzini, I doveri dell’uomo, 1860.
Nel suo celebre libro i Doveri dell’uomo, scritto negli anni in cui si stava realizzando l’Unità d’Italia, Mazzini ricordava la fortuna o il privilegio degli italiani di avere confini territoriali molto ben definiti: le Alpi a nord e il Mediterraneo che circonda la parte peninsulare del Paese. I confini della Patria non sono mai stati però una mera espressione geografica, ma hanno sempre avuto una forte valenza politica e simbolica, essendo stati conquistati grazie alle lotte e al sacrificio di tanti patrioti nelle Guerre d’Indipendenza fino alla Grande Guerra, che li ha sanciti in modo definitivo.
Negli ultimi decenni la difesa delle frontiere nazionali è stata evocata in rapporto all’immigrazione, soprattutto nei periodi (o in previsione) di afflussi particolarmente intensi. E in effetti quasi ogni tragedia nel mondo – guerre, pandemie, carestie, catastrofi naturali – può diventare causa di esodi biblici alla ricerca disperata di un futuro che in patria si presenta precluso. E la geografia, com’è noto, espone l’Italia a essere il più vicino approdo per chi proviene dall’Africa, in particolare dalla Libia e dalla Tunisia (la distanza minima tra quest’ultima e la Sicilia è di 140 chilometri). Di conseguenza da anni l’Italia è alle prese con un fenomeno migratorio che le proiezioni demografiche e i danni della crescente siccità garantiscono in continua crescita. Solo dall’inizio di quest’anno si parla già di oltre ventimila arrivi (più di centomila nel 2022).
Forse, come suggerisce qualche opinionista, sul lungo periodo la popolazione degli Stati nazionali europei è destinata a divenire in misura massiccia multietnica, con radicali trasformazioni delle identità nazionali. Attualmente, però, il problema principale dell’Europa è la difficoltà di trovare soluzioni comuni al problema immigrazione, con frequenti rimpalli di responsabilità fra Stati, ognuno dei quali è convinto di aver già fatto più del dovuto. Per quanto ci riguarda, nel complesso le accuse e le autoaccuse di indifferenza dell’Italia alla sorte dei disperati in balia delle onde e alle gravi necessità che li spingono a partire, pur con le oscillazioni legate a singole situazioni e ai cambi di governo, dovrebbero tenere conto di un contesto europeo in cui si usano spesso metodi ben più spicci. La Spagna cinge di alte barriere coronate da filo spinato le sue enclave di Ceuta e Melilla in Marocco; la Francia ha bloccato dei treni provenienti dall’Italia; il Regno Unito smisterà in Rwanda gli immigrati illegali in cambio di sostanziosi finanziamenti. E, uscendo dall’Europa, ricordiamo almeno che l’Australia si è attrezzata con centri di detenzione per migranti su piccole isole del Pacifico e che la Tunisia – sono notizie delle settimane scorse – ha scatenato una vera e propria caccia agli immigrati provenienti dall’area sub-sahariana, che a migliaia fuggono in Italia.
In attesa di un eventuale aiuto dell’Europa, al momento di là da venire, dovremo continuare ad affrontare i tanti problemi legati all’accoglienza e all’integrazione. Anche se, quando sono all’opposizione, i partiti vorrebbero farci credere di avere in tasca la ricetta risolutiva per l’immigrazione, si tratta in realtà di questioni spinosissime di carattere logistico-organizzativo, culturale, finanziario, di politica interna ed estera. In sostanza abbiamo un’emergenza nazionale che potrà solo aggravarsi, se non gestita con raziocinio e lungimiranza. È quindi auspicabile che si cerchi un’intesa tra le forze politiche, economiche e sociali in nome dell’interesse nazionale. Come d’altronde è successo per altre emergenze: dopo Caporetto, negli anni della Resistenza, in quelli della Ricostruzione e recentemente in occasione della pandemia.
E questo tenendo conto che il Paese ha un fortissimo bisogno di immigrazione, anche perché siamo (per imprevidenza) in crisi demografica. Molte aziende hanno bisogno di lavoratori e non trovano persone disponibili. Per non parlare del fabbisogno delle famiglie con sempre più anziani e malati da assistere.
Per quanto riguarda la questione dell’integrazione, basterebbe ritirare fuori, correggendolo o integrandolo, il cosiddetto Jus Culturae, per dare la cittadinanza ai bambini nati in Italia. Il Disegno Legge, già approvato dalla Camera dei Deputati nell’ottobre del 2015, è rimasto abbandonato nella scorsa legislatura in qualche cassetto del Senato, in attesa di essere ripreso in considerazione.
Sergio Casprini