Dalla rubrica Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera del 17 giugno.
Voglio proporre un problema divenuto attuale nel corso del dibattito sull’unità italiana: quello del ruolo del Piemonte nel processo unitario, visto da un meridionale quale sono. Il desiderio dei Savoia di conquistare l’Italia data dalla prima metà del ’700. Senta che cosa scriveva De Brosses intorno al 1740 di Carlo Emanuele: «Non è abbastanza forte da annettersi tutto il Paese (l’Italia), ma va espandendosi a poco a poco; suo padre, il re Vittorio, usava dire che l’Italia è come un carciofo, da mangiarsi foglia per foglia». Tutto ciò non vuole dire, ovviamente, che oltre un secolo dopo l’intenzione del Piemonte fosse ancora quella di annettersi alcune province, e non, come si sostiene oggi, la volontà di creare uno Stato nazionale unitario; tuttavia rimane il dubbio che quella che oggi chiamiamo un’epopea di liberazione dallo straniero iniziasse in realtà come una guerra di conquista e solo dopo diventasse quello che poi effettivamente fu. Aggiungo però che, quale che fosse l’intenzione, il risultato rimane grande.
Ignazio Vesco
Nelle tradizioni e nelle intenzioni dei Savoia, il Risorgimento fu anche guerra di conquista. È stata questa, del resto, per molti secoli, la filosofia politica degli Stati europei. L’estensione del proprio territorio e l’acquisizione di nuove province erano considerate una legittima ambizione e un titolo di gloria per quasi tutte le dinastie regnanti. Sarebbe inutile negare quindi che Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II abbiano visto nella causa dell’unificazione italiana l’occasione per realizzare ambizioni che appartenevano alla storia del casato. Ma commetteremmo un errore se non tenessimo conto di alcuni fattori che rendono i Savoia alquanto diversi da altre dinastie dell’epoca. Lo Statuto di Carlo Alberto non fu la sola costituzione del 1848, ma non venne revocato, come accadde in molti altri casi, dopo l’ondata restauratrice del 1849. Fu certamente una costituzione elargita dall’alto che consentiva al sovrano di nominare il Primo ministro senza tenere alcun conto delle indicazioni del Parlamento, come nel Reich tedesco sino alla fine della Grande guerra. Ma la politica di Cavour e il consenso del re dettero al Piemonte e successivamente all’Italia uno stile parlamentare ispirato dal modello inglese; e il Primo ministro, da allora, fu l’uomo che aveva maggiori possibilità di riunire intorno a sé la maggioranza della Camera. Vittorio Emanuele volle essere secondo, non primo, come sarebbe stato meglio dopo la nascita del nuovo Stato. Ma accettò i plebisciti e riconobbe così implicitamente il principio della volontà popolare. So che i plebisciti risorgimentali godono da qualche tempo di pessima fama e vengono spesso considerati ingannevoli messinscene. Confermarono tuttavia che il sovrano, da allora, non avrebbe regnato soltanto per grazia di Dio, ma anche per volontà della nazione. E conviene ricordare infine che lo stesso Vittorio Emanuele II, salito al trono dopo la sconfitta di Novara, non volle firmare la pace con gli austriaci prima di avere ottenuto l’amnistia per i patrioti lombardi accusati di sedizione e tradimento. Conosciamo gli errori dei Savoia, ma non è giusto lasciare che gli errori, nella percezione generale, cancellino i meriti. Non è così che si scrive la storia.
Sergio Romano