Così il capo dello stato ha rilanciato il 17 marzo il valore dell’unità nazionale. di Salvatore Carrubba
Non credo di appartenere a quella metà di italiani che ama sparlare dell’altra metà, imputandole tutti i difetti che poi essa stessa pratica con disinvoltura. Né credo alla divisione tra gli italiani “alle vongole” e quelli “con la schiena diritta”. Anche per la fastidiosa, incorreggibile e inaccettabile pretesa di questi ultimi d’insegnare ai primi come si stia al mondo.
Preferisco pensare che gli italiani siamo quello che Isaiah Berlin dice dell’umanità intera, ossia un “legno storto”, da accettare con sopportazione, senza la pretesa di raddrizzarlo a colpi d’ascia. Naturalmente, riconoscere certi difetti non significa condividerli né escludere una (magari frequente) condizione di minorità: il punto è non scivolare nel disprezzo e dunque nel vagheggiare un’Italia che non esiste, il miraggio della quale ci fa vergognare di quella che c’è.
Allo stesso modo, un sentimento ragionevole non agevola un sentimento febbrile dell’italianità che sconfini nell’orgoglio: del resto, lo sport mi lascia freddo, in politica (ma non solo in Italia) c’è poco da esaltarsi, nelle arti e nella cultura domina spesso la tentazione di adagiarsi a uno spirito del tempo che soffia nella stessa direzione da Shanghai a Roma e Milano.
Ma ci sono situazioni nelle quali la ragione può conciliarsi con la passione e nelle quali sentirsi partecipi di una storia, di una tradizione e di un’esperienza che hanno contribuito a fare di noi ciò che siamo e ciò che ci sentiamo: nel bene e nel male. A me è capitato ancora di recente, lo scorso 17 marzo, in occasione del discorso alle Camere del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Da vecchio liberale cavouriano, ero molto preoccupato che le celebrazioni scorressero via nell’indifferenza, se non nella polemica, nella divisione e nella faziosità. Temevo molto che l’ipoteca leghista condizionasse il centro-destra nella difesa di quelle che in qualunque altro sistema sarebbero le sue bandiere: il senso dello Stato, il rispetto della nazione, l’amor di patria.
E, in effetti, con la scusa delle ristrettezze di bilancio, ma in realtà per intima indifferenza e sostanziale debolezza culturale, ben poco si era fatto. C’erano stati l’impegno del presidente Ciampi; e gli sforzi del comitato presieduto da Giuliano Amato (le cui linee ispiratrici si possono ritrovare nel libro scritto a quattro mani con Paolo Peluffo Alfabeto italiano, edito da Università Bocconi) ma mi pareva che, complessivamente, un’ottima occasione stesse per essere sprecata.
Poi quel discorso: finalmente qualcuno capace di dire serenamente agli italiani che la formazione del loro Paese non fu una vessazione, un’invenzione o un raggiro, ma il frutto della «consapevolezza di basilari interessi e pressanti esigenze comuni». Nonché l’espressione di una classe dirigente ancora esente dalla dittatura dei sondaggi d’opinione (altro che disegno elitario: ne avessimo, di quelle élite!): ce n’è abbastanza per concludere che anche l’Italia può essere capace di visione.
Per Napolitano, la conquista dell’Unità, fortissimamente dovuta alla «suprema sapienza della guida politica cavouriana», rappresentò il miglior risultato politico possibile alle condizioni date. Riconoscendo nel risultato non solo l’Unità, ma la formazione di uno Stato di diritto, costituzionale e liberale quale pochi altri in Europa. Il che nulla toglie all’intelligenza e alla lungimiranza di altre posizioni (il federalismo di Cattaneo, al quale si ricollegavano nel 1865 i fondatori di questo giornale) che tuttavia nessuna praticabilità avrebbero avuto allora, al di là della dubbia e discutibile ipotesi di una federazione affidata alla guida di un sovrano ben presto rivelatosi di tempra reazionaria quale il beato Pio IX, o di un sostanziale protettorato anglo-francese.
E nulla toglie, quel risultato, alle molte ombre che l’accompagnarono e lo seguirono («i problemi e le debolezze di ordine strutturale, sociale e civile» che anche Napolitano ricorda, ponendoli tuttavia nella giusta prospettiva di giudizio): a partire dal centralismo esasperato e dalla divaricazione fra Nord e Sud, che furono le due facce dello stesso fenomeno, punteggiato da episodi tragici, da entrambe le parti (una descrizione equanime ne danno Giordano Bruno Guerri in Il sangue del Sud, Mondadori; e Marco De Marco in Terronismo, Rizzoli). Essi tuttavia non possono essere ridotti, come ha ben ricordato Napolitano in quel discorso, alla semplice occupazione delle truppe sabaude di un idilliaco Stato borbonico.
Ripeto: quel tipo di centralismo fu un errore che forse lo stesso Cavour avrebbe voluto evitare (e certamente alcuni suoi eredi ci provarono). Ne paghiamo ancora oggi le conseguenze in termini di pervasività della politica che non basteranno gli ipotetici tagli alla “casta” a ridimensionare, se non si interverrà sull’eliminazione (con connessa sforbiciata all’impiego pubblico e para-pubblico) delle innumerevoli articolazioni amministrative nelle quali essa si manifesta, fino all’ultimo Comune d’Italia: sul serio, e non limitandosi a cambiare nome alle Province.
Napolitano ha saputo parlare di unità d’Italia senza censurare le pagine oscure, i fallimenti e gli sbagli. Del resto, aggiungo io, non c’è Paese (e democrazia) al mondo che non abbia imbarazzanti scheletri negli armadi: ma, per esempio, con tutto il motivato disgusto che si può nutrire per Robespierre, pochi, immagino, vorrebbero ripiombare nell’Ancien Régime. Dappertutto, pagine buie, divisioni e guerre civili non hanno impedito il consolidarsi d’identità che nessuno oggi rimette in discussione in nome di rancori secolari.
Napolitano riuscì quel giorno a conciliare gli italiani con se stessi e con la propria storia. Non è un risultato da poco: e le drammatiche contingenze di oggi, il richiamo spasmodico (e tardivo) alle responsabilità comuni, lo stesso tentativo di mantenere un dialogo … .. con le parti sociali altro non rappresentano che l’espressione di un’esigenza di ritrovare quello “spirito repubblicano” che certo non può fiorire laddove vi sia indifferenza, o ostilità, addirittura, verso l’espressione unitaria dello Stato. Altro che retorica: essere Italia conviene ancora. E bisognerebbe spiegarlo bene anche al Sud (come ha fatto ancora venerdì lo stesso Presidente a Palermo), che avrà tutto da perdere dallo spappolamento localistico di cui si intravedono le premesse.
Ho l’impressione che quel discorso abbia contribuito a far saltare un tappo: prova ne sono state le tantissime bandiere esposte sui balconi privati, soprattutto del Nord Italia. Dove, non a caso, poche settimane dopo, la Lega avrebbe subito un significativo rovescio elettorale, dovuto forse anche al non aver colto la forza, proprio nelle sue terre, del sentimento unitario e nazionale, peraltro compatibile con un assetto federale (che è cosa diversa dal traslocare quattro carabattole a Monza). Anche perché quel sentimento è penetrato, ormai, presso quelle culture politiche, come la cattolica e quella di origine comunista, tradizionalmente diffidenti verso il Risorgimento e il processo di formazione dell’unità nazionale, e storicamente propense, piuttosto, a riconoscervi l’espressione del duplice complotto massonico-borghese (sull’importanza nel Risorgimento del filone cattolico-liberale interessanti i contributi di Domenico Fisichella, Il caso Rosmini, Carocci, e di Luciano Malusa, Antonio Rosmini per l’Unità d’Italia, Franco Angeli; dell’anima popolare del Risorgimento si trova un vivace affresco nella biografia di Claudio Modena, Ciceruacchio, Mursia).
Che sia stato proprio un esponente proveniente da quelle culture, come Giorgio Napolitano, a saper presentare l’unificazione nazionale nella sua effettiva dimensione, ricchezza e contraddittorietà intellettuale è un’ulteriore prova di maturazione del dibattito che può perfino riconciliare con la politica. E perciò, sì: italiano mi piaccio.
da Il Sole 24 Ore