Aldo Cazzullo Corriere della Sera 1 giugno 2019
Se il 25 Aprile divide, il 2 Giugno unisce. Più passa il tempo dalla Liberazione dal nazifascismo, più la giornata che dovrebbe celebrarla rinfocola antiche e nuove contrapposizioni, per la responsabilità incrociata di una destra — ora Salvini ma a lungo, prima di Onna, anche Berlusconi — che considera erroneamente la Resistenza una «cosa rossa», e degli ideologismi di una sinistra — si pensi alle vergognose contestazioni alla Brigata ebraica e agli scontri tra i cosiddetti «antifascisti» e le forze dell’ordine — che piega a fini di parte valori che dovrebbero appartenere a tutti gli italiani.
Poi per fortuna viene il 2 Giugno. A dimostrare che il patto repubblicano tiene.
I segnali sono molti. Il primo è la popolarità di Sergio Mattarella. Hanno fatto notizia i quattro minuti di applausi all’assemblea di Confindustria; ma alla Scala sono stati ancora di più. Sarebbe fuorviante leggerli come dissenso dall’attuale maggioranza. Oltre il 50% degli italiani ha appena votato per movimenti la cui cultura politica è distante da quella in cui il presidente si è formato. Se però anche molti di loro si riconoscono in Mattarella, questo significa che il suo stile e il suo modo di operare hanno fatto breccia al di là delle appartenenze. In un tempo segnato in tutto il mondo dalla ribellione contro le istituzioni, non è poco.
La stessa svolta nazionale della Lega, per quanto dettata da motivi tattici, non sarebbe stata possibile in assenza di un forte denominatore comune tra gli italiani, che non può essere solo la paura dei migranti.
I simboli sono decisivi, perché dietro ci sono le cose. Fino al 1982 il tricolore era considerato da molti un simbolo di parte, quasi di estrema destra; occorse una vittoria sportiva per rivedere le bandiere nelle strade. Poi Umberto Bossi invitò a farne un uso improprio. Oggi il tricolore è un simbolo in cui la grande maggioranza degli italiani si riconosce.
Anche per questo l’autonomia del Nord non deve fare paura. Pure nell’unica regione percorsa da autentiche venature separatiste, il Veneto, le due bandiere — il tricolore e il Leone di San Marco, che è poi uno dei segni dell’identità europea visto che fu il vessillo di una Repubblica durata mille anni — possono stare insieme. Non a caso, quando dopo la rivolta del 1848 risorse la Serenissima, Daniele Manin volle come bandiera il tricolore, con un Leone in alto a destra. Non tutti i veneti la pensano così; ma la maggioranza sì.
Gli italiani sono più legati all’italia di quel che pensano di essere. Ma distinguono la patria dallo Stato. Troppi fenomeni, dall’evasione fiscale alla corruzione, dimostrano che lo Stato è ancora sentito come «altro» rispetto a noi; e a volte il fisco e la burocrazia si comportano in modo tale da confermare questi pregiudizi negativi. Al malcostume quotidiano si aggiungono bizzarrie culturali: il Sud che il 2 giugno 1946 votò in massa per tenersi i Savoia ora è percorso da un’onda neoborbonica che sarebbe sbagliato sottovalutare, e non solo perché è attivissima sul web. Il retro-testo è evidente: il Sud sarebbe ricco, libero e felice se il Nord non l’avesse invaso, depredato, colonizzato. Un pregiudizio speculare a quello di certi nordisti, secondo cui il Nord sarebbe una grande Baviera se liberato dalla palla al piede del Sud. Sembrano fazioni contrapposte, ma condividono la stessa mentalità: la causa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani.
L’altro grande capro espiatorio è l’Europa, ormai concepita come fonte di ogni male. La sfida è invece proseguire la costruzione europea, senza perdere del tutto la dimensione dello Stato-nazione, nei cui confini è nata la democrazia e si devono oggi costruire un’equità fiscale e un patto di reciproche responsabilità che ancora non sono compiuti.
La Repubblica non è mai acquisita per sempre. È un divenire che ha anche necessità di date, di simboli, di memorie, di persone. Persone come Carlo Azeglio Ciampi, che amava ripetere di sentirsi profondamente livornese, toscano, italiano, europeo.