Intervento di FABIO BERTINI, a nome del Coordinamento Nazionale delle Associazioni Risorgimentali, alla Cerimonia in occasione della BRECCIA DI PORTA PIA Settembre 1870/ settembre 2024. Venerdì 20 settembre ore 11,30 Piazza dell’Unità Firenze
Il divenire di due liberazioni (per il ritorno alla “festa civile”)
A Porta Pia si concluse la lunga era di un potere temporale nato come “donazione” e divenuto con lenta progressione potere politico non solo influente sull’insieme della penisola, ma ragione esso stesso di incursioni e condizionamenti da parte di potenti stranieri, fino alla fase finale culminata a Porta Pia. L’equivoca dialettica tra l’Imperatore, incoronato dal Papa, ma a sua volta in posizione di autorità superiore e protettiva del Papa, celebrata da Carlo Magno e rinnovata simbolicamente da Napoleone I, nei fatti era durata fino a Porta Pia. Nel ‘400 il Papato si era definitivamente affermato come Stato e aveva cercato di dimostrarlo nel Rinascimento dandosi magnificenza con la bellezza artistica e con un ruolo culturale e non solo religioso. Uno Stato appunto. Rinunciando al ruolo propulsivo che, come sede del potere spirituale, avrebbe potuto esercitare in chiave “italiana”, aveva finito per essere fattore della soggezione agli stranieri, grazie anche – va detto – alle logiche egoistiche delle Signorie, proprie del resto anche di alcuni Pontefici. Era già dominante l’intrecciarsi tra politica e religione. Se la gerarchia ecclesiastica era anche classe di governo e di un governo sostanzialmente dispotico e abbastanza incapace, il potere spirituale, con l’uso disinvolto del nome di Cristo e con mezzi coercitivi quale la scomunica e l’anatema, dominava le anime e dettava le regole che soffocarono la scienza e la ragione, da Giordano Bruno a Galileo, agli altri, per arrivare all’alba del moderno Illuminismo.
Tutto ciò in una fase di decadenza italiana, in cui Roma finì per essere l’unica vestigia di una grandezza esistita, perduta e rimpianta per secoli. Rimase un simbolo anche quando il prepotente riaffermarsi della ragione in un contesto di incalzante modernità, culminato nei riflessi della Rivoluzione francese e poi nell’arrivo di Napoleone che spostò spostò i termini del confronto tra conservazione e modernità. L’asprezza del conflitto rilanciò l’intreccio tra religione e conservazione. Un lungo e mai sopito “Viva Maria”, dapprima bellicoso e feroce, poi sottotraccia facendo leva su plebe e campagne, dette nuova linfa al potere spirituale che poté confermarsi e rilanciarsi come potere temporale. L’epoca napoleonica fu breve ma non inefficace ai fini del senso di indipendenza e senso della Nazione, di pensiero alternativo all’assolutismo, di modernizzazione, di avversione all’alleanza tra trono e altare e a ciò che significava. Era tempo della rivincita di Dante, Giordano Bruno, Galileo, e del bisogno di una letteratura, di una musica, di un’arte nazionale e libera e alla coscienza del bisogno di pensiero libero e indipendente come Mazzini e altri laicamente indicavano.
Il Papato finì sempre più per essere roccaforte e giustificazione della conservazione ed a reggersi esso stesso sull’aiuto dell’Austria che, perso lo smalto riformatore settecentesco, faceva leva a sua volta su un’idea di conservazione imperialistica di un vasto dominio territoriale di cui l’Italia era parte. Tale era il patto contro i moti di Ciro Menotti e dei carbonari e ebbe un momento di crisi soltanto con la prima fase di Pio IX, quella delle speranze riformatrici che, bene o male, agirono da innesco, non dell’incendio perché l’incendio era europeo e riguardava l’entrata in un’epoca nuova, ma delle speranze italiane cui concorsero anche i moderati persuasi che il nesso tra fede e liberalismo potesse esistere. Fu rapido lo spegnimento della miccia, preannunciato dalle esitazioni di Pio IX su un vero regime costituzionale e affermato definitivamente con il messaggio del 29 aprile 1848 che dimostrava due cose: l’indipendenza italiana e la supremazia cattolica si separavano; il Potere temporale era moribondo: per sopravvivere era bisognoso di armi straniere e di protezione di sovrani a loro volta servi di stranieri e, dopo i fatti, tornati assoluti e odiati.
E intanto, lo slancio dei volontari, il coraggio di Vittorio Emanuele II nel mantenere lo Statuto, l’eroica difesa della Repubblica romana, il pieno imporsi dell’ideale risorgimentale, avevano affermato l’idea del “se non ora quando”, la volontà di rinnovamento politico, sociale, produttivo che rendeva anacronistico lo scenario dei poteri assoluti. Era così anche agli occhi dei moderati e, a maggior ragione, dei democratici, lo era anche per chi, senza saperlo e schierandosi con il trono e l’altare, era lo stesso sulla via del rinnovamento. Tutti più o meno consapevoli, meno il Papa e la sua gerarchia, stretti intorno al baluardo di un potere spirituale logorato e al sostegno di stranieri e poteri assoluti che, a loro volta, avevano bisogno dell’altare per puntellarsi. Si sarebbe detto in Toscana si davano la mano “il cieco e la bellona”. Bastò un decennio per far saltare il castello di carte e dare forza al movimento per l’unità nazionale che ormai aveva ritrovato la sua nobile letteratura, la sua cultura, indipendente dagli imprimatur dei censori, alimentata da intellettuali di prima fascia e da intellettuali generati nel popolo dalla partecipazione ai fatti del Risorgimento. Tutto confluì nella guerra per l’indipendenza che, se aveva un sostegno straniero, non sarebbe stata vinta senza la coscienza nazionale e i suoi patrioti.
Restava Roma e non fu cosa facile. Mancava il coraggio di fare leva sul grande movimento popolare che venti anni avevano mostrato possibile, da Curtatone, ai generosi che avevano sfidato la forca e la galera austriaca, ai volontari del 1859-60, del Piemonte e di Garibaldi. Mancò presto la sagacia di Cavour che aveva dato una ragione politica di grande lungimiranza, la “libera Chiesa in libero Stato”, prospettiva reale per un Papato che fosse altrettanto lungimirante. Ma non lo fu, sempre più avvolto in una visione autoreferenziale e distante dal Cristianesimo dei nobili princìpi, legato mani e piedi alla dipendenza da Napoleone III, a sua volta legato mani e piedi agli inaffidabili cattolici francesi. C’erano tutte le condizioni perché l’aspirazione ad una vera indipendenza nazionale e per l’affermazione del libero pensiero crescessero insieme e l’ideale di Roma capitale ne rappresentasse la sintesi, quella stessa aspirazione che non mancò mai in Mazzini e in Garibaldi e generò altri generosi e altri martiri vanificati dalla ragion di Stato. E la ragion di stato era soprattutto espressione di debolezza da parte di una classe dirigente che, perduto Cavour, non ne ritrovava orgoglio e lucidità, salvo forse l’iniziativa di Ricasoli che finì per essere a sua volta isolato. Occorse il crollo di Napoleone III, a sua volta sempre più isolato, anche rispetto allo stesso nazionalismo che lo condusse a Sedan come fosse un destino.
Cadde e Pio IX perse l’ultima occasione, dare Roma all’Italia (che ne aveva provato il diritto) e fruire della formula di Cavour che era patto di liberazione, non per l’Italia che non ne aveva più bisogno, ma per la Chiesa messa in grado di recuperare tutta l’autorevolezza di un messaggio universale e realmente cristiano e non rimanere chiusa nella rancorosa affermazione di un potere temporale che non aveva più senso ( come affermò Giova Battista Montini, allora arcivescovo di Milano nel 1962). Pio IX scelse la seconda possibilità e percorse improbabili strade che condussero a Porta Pia, mentre infuriava allo scoperto il conflitto con il libero pensiero che molto aveva da rivendicare. Fin dal 1871, l’anniversario del 20 settembre fu celebrato a iniziativa delle associazioni popolari, dei corpi morali, di patrioti e garibaldini ed era anche quello un mondo in divenire, come tutto l’insieme dell’universo politico e sociale che, dopo Porta Pia, non poteva essere più lo stesso. La nuova Italia che usciva da Porta Pia era in mezzo alla nuova Europa che usciva da Sedan. Il rapporto tra la classe dirigente e il radicato potere della Chiesa sulla cultura popolare era tutto da riscrivere. Ciò che si era mostrato con la Comune di Parigi era un’altra delle coordinate e aggiungeva un nuovo e agguerrito interlocutore.
Nella classe dirigente si sarebbero confrontate concezioni diverse, tra chi considerava fondamentale tenere a punto di riferimento la tradizione religiosa puntando sul progresso nella conservazione e chi riteneva si dovesse affidarsi al pensiero razionale e riconoscere il diritto sociale e un deciso progresso. Era la posta fondamentale di una partita che riguardava l’egemonia culturale del clero, l’autentica natura liberale del potere laico, il confronto con un popolo cosciente. Ed era una posta importante e tutta da giocare. Porta Pia era stata sfondata. Raccogliere e spostare le macerie sarebbe stata fatica di Sisifo. La stessa vicenda della ricorrenza del 20 settembre l’avrebbe dimostrato. Dichiarato giorno festivo agli effetti civili nel 1895 (“quasi” una festa nazionale); spesso celebrato nel contrasto tra ufficialità e manifestazione popolare; abolito a dicembre 1930 da Mussolini in persona meno di due anni dopo il Concordato; riproposto come solennità civile nel 2002. Per così dire in stand by, ma non per noi che siamo qui e per il Comune di Firenze che è con noi e che rivendichiamo l’importanza di ricordare solennemente, almeno come festa civile una data di liberazione per lo Stato e per la Chiesa. Mi ripeto: “Se non ora quando”.
Fabio Bertini