Marco Valerio Lo Prete Il Foglio 9 ottobre 2012
Da un legno storto come quello di cui sono fatte le regioni italiane, non si può costruire niente di perfettamente dritto. Infatti i clamorosi scandali e i problemi strutturali con cui ci confrontiamo in questi giorni, secondo l’economista Vito Tanzi, non sono tanto figli della riforma del Titolo V della Costituzione ma sono piuttosto da rubricare alla voce “costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia”. E’ quanto emerge dall’originale analisi “costi-benefici” della storia risorgimentale che è contenuta nel libro:
ITALICA, costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia (Edizioni Grantorino)
Tanzi, una carriera ai vertici del Fondo monetario internazionale e già sottosegretario all’Economia e alle Finanze dal 2001 al 2003, intende documentare, numeri alla mano, che un “Risorgimento” istituzionalmente diverso fosse possibile e perfino conveniente. L’autore ricorda che l’unificazione “alla piemontese” s’impose sulle altre tre opzioni ideali allora esistenti (federale, confederale e repubblicana) per diverse ragioni: innanzitutto per l’influenza della cultura francese e centralizzatrice sul Regno di Sardegna e sul leader politico Camillo Benso conte di Cavour; poi per il timore che la decentralizzazione avrebbe dato troppo potere alle opposizioni di ogni tipo; infine per il clima emergenziale che l’esplodere del brigantaggio meridionale giustificò. L’economista, di origini pugliesi, non nega inoltre che l’interesse a condividere l’enorme debito pubblico del Piemonte con il resto d’Italia abbia pure pesato nella svolta centralistica, ma non giustifica le tesi di quanti leggono il Risorgimento come un consapevole e cinico processo di annichilimento del meridione; preferisce, più laicamente, parlare di “errori”.L’ex direttore del Fiscal affairs department del Fmi non intende improvvisarsi storico e così valuta l’impatto dell’unificazione-centralizzazione attraverso le lenti che conosce meglio, quelle della “scienza delle finanze” applicate al bilancio pubblico. Un esempio? Il trasferimento automatico del disavanzo e del debito piemontese sul resto d’Italia, che sarebbe stato più difficile da effettuare in un regime federale, fece sì che buona parte della spesa pubblica nazionale fosse per anni assorbita dal servizio del debito e non dagli investimenti necessari per favorire l’industrializzazione di tutto il paese. Risultato: un po’ come avviene oggi, l’Italia mantenne nella seconda metà dell’800 una spesa pubblica più alta della media europea (dal 13,1 per cento del pil nel 1872 al 18,3 per cento nel 1912, contro il 9-12,4 per cento del Regno Unito e l’11-12,6 per cento della Francia), sacrificandola per fini improduttivi. Contemporaneamente il rifiuto della devoluzione dei poteri acuì il problema dell’asimmetria informativa di cui era vittima la classe dirigente di matrice piemontese: Cavour riteneva che quella di Napoli fosse la provincia più ricca d’Italia, Marco Minghetti che il sud fosse la parte più fertile d’Europa, e tutti quanti che i problemi di allora fossero superabili semplicemente archiviando la gestione borbonica. Così quando l’amministrazione piemontese decise di raggiungere il pareggio di bilancio, anche per fare fronte al dissesto ereditato dal Regno di Sardegna, non si fece problemi ad alzare le imposte a un livello inverosimile in tutto il paese (al punto che nel 1866 il barone Giacomo Bavarese, nelle sue “Lettere di un contribuente a un uomo di stato”, descrisse un paese ridotto a “museo delle Tasse”). Ancora: quando dazi e tariffe doganali furono (giustamente) aboliti subito dopo l’unificazione, in pochissimi a Torino si posero il problema di concedere alle industrie del mezzogiorno un tempo sufficiente a ristrutturarsi e diventare più competitive.
Sostiene Tanzi, infine, che l’effetto più duraturo e nefasto della scelta istituzionale di allora è quello che ha investito la cultura politica e democratica del paese: “Una struttura federalista avrebbe convinto i cittadini delle diverse regioni che quello che succede localmente è in buona parte responsabilità dei leader e dei cittadini a livello locale, e che non può essere completamente attribuito ai politici che operano a livello nazionale. La scelta unitaria diede una buona scusa ai politici locali per attribuire i problemi delle loro province al governo nazionale e non alle loro politiche”. E rispetto a questa tendenza di fondo, nulla è mutato – se non nelle apparenze – dopo la svolta regionalista avviata concretamente 42 anni fa e rafforzata nel 2001.
Meglio dunque fare un passo indietro? “Tornare ora a un sistema centralizzato non sarebbe una buona idea – dice Tanzi al Foglio – anche perché è difficile sostenere che il governo centrale sia stato un esempio di prudenza o efficienza in faccende economiche”. Si tratta piuttosto di ammettere una volta per tutte che il decentramento dei poteri di spesa può portare a differenze nei livelli di servizi che le comunità locali e regionali offrono, e che Roma non può garantire l’uniformità delle prestazioni: “Perciò i rimborsi che le regioni ricevono per i servizi pubblici obbligatori – sanità, scuola, eccetera – devono essere gli stessi, o quasi, in tutta l’Italia”. E allo stesso tempo occorre attribuire ai territori più responsabilità fiscale: un maggiore potere di spesa non può dunque che andare di pari passo con l’obbligo per i politici locali di chiedere direttamente ai loro elettori le risorse necessarie a finanziarsi, vuoi vendendo i beni pubblici vuoi aumentando le tasse. E se l’Europa non intende complicare ancora di più il suo futuro, è il messaggio di Tanzi, farà meglio a studiare la lezione risorgimentale italiana prima di procedere verso una maggiore integrazione.