di Paolo Mieli dalle pagine culturali del Corriere della Sera del 26 luglio.
Il 24 novembre del 1848, nove giorni dopo l’ uccisione di Pellegrino Rossi, Pio IX lasciò Roma e andò in esilio a Gaeta, dove sarebbe rimasto per un anno e mezzo, fino al 12 aprile del 1850. Di lì a poco, dalla fine del 1848 ai primi mesi del 1849, sarebbe sorta la Repubblica romana, sotto il triumvirato di Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi. Repubblica difesa da Giuseppe Garibaldi fino ai primi di luglio, quando i volontari del generale nizzardo dovettero cedere alla superiorità militare delle truppe francesi comandate da Nicholas-Charles Victor Oudinot. Protagonista di quella stagione rivoluzionaria, che alimentò uno dei principali miti del Risorgimento italiano, fu il carrettiere (trasportava vino dai Castelli al porto di Ripetta) Ciceruacchio. Angelo Brunetti, capopopolo di Roma , come recita il titolo di un assai interessante libro di Claudio Modena edito da Mursia. Fu lui che, appena fuggito il Papa, già ai primi di dicembre del 1848 guidò la straripante manifestazione che impose la Costituente. Fu sempre lui che nei giorni successivi si mise a capo di processioni antireligiose spesso conclusesi con aggressioni a preti o assalti a conventi. Fu ancora lui che, conquistata la piena fiducia di Mazzini, fu messo a capo dei comitati per difendere la Repubblica romana dalle aggressioni esterne. Piacque, Brunetti, anche a Garibaldi, che il 19 maggio del 1849 gli affidò il compito di requisire i confessionali e di accatastarli per le barricate contro i francesi. Ciceruacchio non esitò a mettere a soqquadro alcune importanti chiese: Santa Maria dei Miracoli, Monte Santo, Santa Maria del Popolo, San Giacomo, San Carlo al Corso, San Rocco, San Girolamo degli Illirici e San Lorenzo in Lucina. Quel giorno, nel giro di quattro ore, i suoi popolani sequestrano ben 52 confessionali che furono poi portati a piazza del Popolo per essere dati alle fiamme. In quel contesto furono rubati arredi e trafugate immagini sacre in gran quantità. Episodi che imbarazzarono anche qualche esponente di primo piano di quell’ avventura rivoluzionaria. Pietro Sterbini, ministro dei Lavori Pubblici della Repubblica romana, fece pubblicare dal «Monitore di Roma» un articolo in cui per quei misfatti si attribuiva la colpa ad alcuni non ben identificati elementi stranieri. Un modo per discolpare Ciceruacchio, che però non fece nulla per chiedere perdono. A Ciceruacchio l’ Assemblea Costituente affidò anche importanti missioni politiche: ad esempio in marzo lo inviò a Livorno per sollecitare la costituzione dell’ unione tosco-romana. Fallì e da quel momento tornò ad avere solo incarichi militari. Ai quali attese con energia ed efficacia. Nei giorni conclusivi seguì Garibaldi ma, staccatosi da lui, trovò la morte in un paesino del Veneto. Per alcuni anni si diffuse la leggenda che il grande capopopolo romano era riuscito a fuggire e aveva fatto fortuna in terra straniera. Finché, il 28 ottobre del 1859, Garibaldi fece pubblicare sul «Monitore» di Bologna il dispaccio che gli aveva inviato Luigi Rivalta, ex arciprete di San Martino (Rovigo): «Vostra eccellenza si compiacerà di far sapere a tutti coloro che hanno osato di scrivere che Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e i suoi figli erano in Crimea a fare i vivandieri, ch’ essi hanno solennemente ingiuriato alla verità. Invece quei generosi italiani furono senza alcun dubbio fucilati dagli austriaci a Ca’ Tiepolo. Latitanti per alcuni giorni nel bosco di Mesola sette de’ vostri soldati, verso i primi di agosto del 1849, riuscirono con l’ aiuto di alcuni goresi a passare il Po, e ad entrare nel Veneto coll’ idea di recarsi a Venezia. Era tutto disposto per condurveli quando l’ infame oste che li aveva alloggiati li tradì». Successivamente, nel 1892, si formò un Comitato popolare per un monumento all’ eroe carrettiere (un gesso, a lui dedicato, di Ettore Ximenes). «Nelle intenzioni del Comitato», racconta Modena, «il monumento doveva essere collocato in una posizione tale che lo sguardo di Ciceruacchio fosse rivolto (come per Giordano Bruno) verso il Vaticano. Ovviamente saltava subito agli occhi che l’ opera voleva essere una dichiarata accusa contro il potere temporale dei Papi, piuttosto che rappresentare un tributo al popolano». Nel 1900 il gesso di Ximenes venne fuso in bronzo e nel 1907 fu collocato vicino al ponte Margherita sul lungotevere Flaminio (ora Arnaldo da Brescia), ma con il volto non già rivolto a guardare la basilica di San Pietro, bensì verso la città. Sul lato anteriore figura, questa dedica: «A Ciceruacchio. Il Popolo». Ma – ed è qui la parte più rilevante del libro di Modena – quel grande mangiapreti era stato nei due anni e mezzo che precedettero il 1849 un ultras della devozione a Pio IX. Tutto era iniziato nel giugno del 1846, alla morte di Papa Gregorio XVI. Gregorio, il bellunese Bartolomeo Alberto Cappellari, era stato un Pontefice aperto al mondo, ma assai conservatore in patria. In seguito ai moti del 1831, le potenze, certo non rivoluzionarie, che avevano dato vita alla Santa Alleanza gli avevano inviato un Memorandum per esortarlo a mettersi al passo con i tempi. Ma lo stesso Metternich – estendendo la sua perplessità dall’ uomo all’ intero Stato pontificio – ammetteva di non «sperare in qualche cambiamento di quell’ atipico sistema feudale, i cui elementi di fragilità erano talmente inerenti alla sua costituzione, alla sua esistenza» da non consentire illusioni. E non aveva torto, dal momento che Gregorio XVI continuò per la strada già imboccata dai suoi predecessori. Per la sua Chiesa tutto ciò che di liberale stava producendo quella stagione meritava solo un’ attenzione negativa, dal momento che era frutto di cospirazione. Il 20 maggio del 1846, pochi giorni prima di morire, Papa Gregorio ricevette al Quirinale Jacques Crétineau-Joly, storico della Vandea e della Compagnia di Gesù, per consegnargli documenti riservatissimi e affidargli l’ incarico di scrivere una Storia delle società segrete , che avrebbe dovuto dimostrare come la massoneria fosse all’ origine di tali cospirazioni. I suoi sudditi non lo amavano. È rimasta celebre una lettera di Diomede Pantaleoni in cui il futuro collaboratore di Cavour così descriveva i funerali del Pontefice: «Il Papa è stato sepolto sabato sera. Mi ci trovai presente e, fuori del cardinal Lambruschini, è difficile dirvi l’ aria di trionfo, di gioja e indecenze del popolo. Si sarebbe detto che si seppelliva un impiccato per delitti. I forastieri soprattutto se ne sono scandalizzatissimi. In tutta la città non vi è stato il menomo lutto, come se fosse morto un cane. È indescrivibile l’ indecenza e la porcheria usata da chirurghi nell’ imbalsamarlo. Fu una degradante carneficina. Per vestirlo fu fatto con tanta decenza, che si gettò il cadavere due volte per terra. Le scarpe erano sì sporche che furono dovute risolare, non ve ne essendo altre, e raschiarle con un vetro. La notte gli stessi penitenzieri se la passarono ridendo attorno al cadavere». A dolersi e preoccuparsi fu il piemontese conte Clemente Solaro della Margherita, ministro di Carlo Alberto, re di Sardegna, ed esponente di spicco della Destra nel Parlamento subalpino: «Nell’ istesso dì che ricevei la notizia del transito a miglior vita dell’ immortale Gregorio», scrisse, «dissi: dal suo successore dipendono le sorti di questo paese: guai se per poco Carlo Alberto trova incoraggiamento in un nuovo Papa alle sue idee, non sarà più in mio potere trattenerlo». Il conclave per eleggere il successore fu brevissimo, non si attesero neanche i cardinali che dovevano arrivare dalle sedi straniere. Candidato dei «continuisti» era quel Luigi Lambruschini citato dal Pantaleoni come l’ unico che aveva pianto per la scomparsa di Papa Cappellari. Lambruschini, dell’ ordine dei Barnabiti, era stato il teologo personale di Pio VII e da lui nominato suo successore nel 1819 all’ arcivescovado di Genova; poi era divenuto segretario di Stato con Gregorio XVI ed era dunque il principale prosecutore della sua politica. Alfiere della discontinuità era invece il cardi
nale Pasquale Gizzi, assai stimato da Massimo d’ Azeglio. Su Gizzi convergevano tutti i pronostici e quando si seppe che il conclave era stato veloce, i suoi domestici, dando per scontato che il prescelto fosse lui, accatastarono nel cortile del suo palazzo, a Ceccano, le vesti cardinalizie, considerate ormai inutili, e le bruciarono con un grande falò. Fu eletto invece, a sorpresa, Giovanni Maria Mastai Ferretti, che prese il nome di Pio IX. «Non era certo il Papa che il movimento liberale aveva sognato per tanti anni», chiosa Modena, «ma non era neppure il Papa che il folto gruppo reazionario aveva sperato di avere». E il suo debutto fu assai fortunato. Secondo il grande biografo di papa Mastai, il gesuita Giacomo Martina, autore dei tre volumi Pio IX pubblicati tra il 1974 e il 1990 dalla Gregoriana, il «mito» del Pontefice liberale è riconducibile all’ amnistia che concesse a 400 tra detenuti ed esuli politici nell’ estate 1846. «Raramente», ha scritto Martina, «la storia presenta un caso analogo di un provvedimento che, malgrado le sue modeste proporzioni, abbia provocato reazioni così vaste, profonde, durature. L’ amnistia fu la scintilla che, caduta sulle polveri che si erano accumulate da tempo, fece divampare l’ incendio in tutta Italia e in larga parte dell’ Europa. O, se vogliamo, fu l’ inizio di un delirio collettivo dell’ opinione pubblica, parte spontaneo e parte artificiosamente montato, che ebbe la sua conclusione nelle rivoluzioni europee del 1848. Si trattò quindi di un fenomeno non solo religioso ma essenzialmente politico, di un evento non solo italiano ma europeo». Uno studioso cattolico tradizionalista, Roberto de Mattei, nel suo Pio IX (Piemme) dove è detto che «nessuna figura storica degli ultimi due secoli può dirsi forse tanto discussa, ma allo stesso tempo tanto poco conosciuta dagli stessi ambienti cattolici», ha poi parlato di una «visione politica non priva di ingenuità agli esordi del pontificato» che «si fece via via più lucida, soprattutto dopo le svolte storiche del 1848 e del 1859». Anche Almo Paita in Pio IX. L’ ultimo Papa Re divenuto beato (Bur) parla di un Pontefice «impreparato» al momento dell’ elezione e successivamente «travolto dall’ imprevisto entusiasmo popolare». Entusiasmo che era destinato a trasformarsi in «delirio» allorché fu concessa l’ amnistia. Organizzatore delle manifestazioni di questo delirio collettivo fu fin da principio Angelo Brunetti. Era nato nel 1800 nel rione popolare di Campo Marzio e la polizia lo teneva d’ occhio dal 1837, allorché, approfittando di un’ epidemia di colera e del clima di incertezza che essa aveva provocato, un gruppo di carbonari guidato da Benedetto Polvano tentò di organizzare una sommossa di popolo. Luigi Carlo Farini ne Lo Stato romano dall’ anno 1815 all’ anno 1850 (Le Monnier) di Brunetti dice che «già nelle prime dimostrazioni pubbliche erasi reso notevole frà popolani, che molti aveva affezionati e obbligati… un uomo semplice, rustico, fiero e generoso a un tempo, come è il popolano di Roma; travagliativo e industrioso, aveva fatto una tal quale fortuna; soccorrevole e caritativo, aveva acquistato una specie di primato fra gli uomini di sua condizione, condottieri di vetture, bettolieri e altra minuta gente». L’ amnistia fu, come si è detto, lo spunto per le prime manifestazioni che inneggiavano a Pio IX «solo» (specificazione che si affermerà definitivamente nella primavera del 1847) nel senso che – era da intendersi – il plauso popolare indirizzato al Santo Padre non andava esteso al resto della Curia. Anzi, si esortava il Papa a ribellarsi ad essa. Il mancato pontefice Gizzi, segretario di Stato, sospettò fin da principio che dietro quei cortei si celasse una macchina organizzativa in grado di controllare e manovrare la piazza. Da parte di gregoriani e sanfedisti si fecero pressioni sul Pontefice perché desse un altolà a quelle dispendiose manifestazioni che, oltretutto, distoglievano i cittadini dal lavoro. Ma papa Mastai si mostrava invece assai compiaciuto per gli applausi, i cori e, sempre più spesso, le ovazioni con cui veniva accolto nelle sue apparizioni pubbliche. E il «popolo» di Brunetti iniziò a condizionarlo. Il 4 novembre di quello stesso 1846 (poco più di quattro mesi dopo che era salito al soglio pontificale), quando si recò a San Carlo al Corso, il Papa fu accolto dal gelido silenzio di trentamila persone a cui Brunetti aveva ordinato quella forma di protesta per il fatto che Pio IX non procedeva a passi abbastanza spediti sulla via delle riforme. Subito il Papa diede mandato al segretario di Stato Gizzi di correre ai ripari, nel senso di inserire giureconsulti laici (otto su dieci) nella commissione per la riforma del codice civile e penale, talché l’ 8 novembre, in occasione di una visita alla basilica di San Giovanni in Laterano, il Pontefice fu nuovamente accolto da grida di approvazione e convinti battimani. E il Papa tornò a essere lieto. «La convinzione», scrive Modena, «che Pio IX fosse prigioniero di una fitta ragnatela di ostacoli e di impedimenti, tessuti ad arte fin dall’ inizio del suo pontificato dai reazionari, dagli alti prelati e dai gesuiti, era ormai diventata di pubblico dominio». E Pio IX, pur legiferando con molta prudenza (ribadì sostanzialmente la legge sulla stampa del 1825), non fece nulla per scoraggiare i movimenti «spontanei» che lo osannavano. Quando usciva al cospetto delle genti, riceveva cori di approvazione e di esortazione: «Coraggio Santo Padre!» gli dicevano con l’ evidente intenzione di spronarlo contro la gerarchia nostalgica del suo predecessore. Fu in questo contesto che si verificarono i «fatti di Zagarolo». A un anno dall’ elezione di Pio IX, nel paesino laziale destava scandalo la circostanza che non fosse stato ancora innalzato il suo emblema sulla facciata del palazzo comunale. «I nostalgici di Papa Gregorio», osserva Modena, «sembravano non avere fretta nel mandare in cantina il vecchio stemma che simboleggiava un Papa il cui pontificato era segnato da forti tinte medievali, per lasciare il posto a quello del Mastai così moderno, innovativo, pieno di continue novità da apparire agli occhi dei retrivi ispirato più dal diavolo che dal cielo». Per tutta risposta Ciceruacchio, con 150 seguaci, si arrampicò sul palazzo e sostituì lo stemma, ottenendo per questo gesto il plauso esplicito di d’ Azeglio. A questo punto il cardinale Gizzi «per cercare di porre un freno al mugugno dei ministri e per raffreddare quell’ entusiasmo verso il Pontefice che da tempo creava un forte malcontento in tutto il governo» rese pubblico un editto in base al quale venivano proibite per «volontà del Papa» le riunioni popolari. Contemporaneamente, sempre a rassicurare i conservatori, fu annunciata una visita il 27 giugno nella chiesa dei gesuiti (odiati dai progressisti) di Sant’ Ignazio. Divenne poi un caso lo scontro tra un gruppo di ebrei e gli abitanti del rione Regola, confinante con il Ghetto. Si diffuse la voce che si trattava di una ribellione degli abitanti di Regola all’ atto di clemenza con il quale Pio IX aveva concesso agli ebrei di poter vivere e aprire attività commerciali al di fuori del proprio quartiere. Fu Ciceruacchio a salvare l’ immagine del Papa promuovendo una grande manifestazione di fratellanza con gli ebrei che impedì alla scintilla di trasformarsi in un incendio. E fu ancora lui a risolvere la «guerra dei cocchieri», scatenata dai vetturini romani contro gli abruzzesi che insidiavano loro il posto. Uno strano clima: qualcuno aizzava le plebi romane a provocare disordini che avevano l’ evidente finalità di boicottare l’ intesa tra la popolazione e il nuovo Pontefice. Si tessero persino le trame di un complotto che, sotto mentite spoglie rivoluzionarie, avrebbe dovuto provocare la morte di Ciceruacchio. Papa Mastai e Brunetti confidavano sempre più l’ uno nell’ altro. Pur nei differenti ruoli, si sentivano insidiati dagli stessi nemici e notavano che la linea di separazione tra ultras reazionari e rivoluzionari (e talvolta la delinque
nza organizzata) andava scomparendo. Il Pontefice costrinse Gizzi alle dimissioni (sia pure annunciando che erano dovute a motivi di età) e lo sostituì alla segreteria di Stato con suo cugino Gabriele Ferretti. Rimpiazzò anche il governatore di Roma, cardinale Gaspare Grassellini (coinvolto nelle congiure di cui si è detto e malvisto da Ciceruacchio), con monsignor Giuseppe Morandi. La città di Terni, quando Brunetti la visitò in ottobre, fece stampare un manifesto in cui lo si definiva – per aver sventato i complotti – «salvatore della patria». In luglio gli austriaci – il cui zampino era individuabile nelle mene di cui s’ è detto – come reazione all’ armamento della Guardia civica occuparono Ferrara. La risposta di Pio IX non fu virulenta, ma bastò per infiammare i giornali («Contemporaneo», «Bilancia», «Pallade», «Italico», «Patria») e gli animi dei liberali romani. Il barnabita Alessandro Gavazzi iniziò a profferire prediche antiaustriache dal pulpito della chiesa di Sant’ Andrea delle Fratte. L’ 11 settembre, per espressa concessione del cardinale Ferretti, fece ritorno a Roma dal suo esilio francese il filosofo conte Terenzio Mamiani della Rovere e Ciceruacchio organizzò per lui un grande banchetto popolare. In quegli stessi giorni al caffè delle Belle Arti furono esposti al pubblico i busti di Pio IX e di Vincenzo Gioberti, l’ abate piemontese autore di quel Del primato morale e civile degli italiani (1843) che prefigurava un’ Italia federale guidata dal Santo Padre. La folla plaudente, quella sera, si spostò sotto le finestre delle ambasciate di Sardegna e di Toscana per inneggiare a Carlo Alberto e al granduca Leopoldo, i quali, proprio in quei giorni, avevano decretato alcune concessioni di segno liberale. Veniva allo stesso tempo resa nota la lettera di Giuseppe Mazzini a Papa Mastai: «Non dite a voi stesso se io parlo e opero nel tal modo, i principi della terra dissentiranno; gli ambasciatori daranno note e proteste: Che sono le querele d’ egoismo de’ principi, e le loro note, davanti a una sillaba dell’ evangelio eterno di Dio? Annunciate un’ era, dichiarate che l’ umanità è sacra e figlia di Dio; che quanti violano i suoi diritti al progresso, all’ associazione, sono sulla via dell’ errore… I popoli adoreranno in voi il miglior interprete dei disegni divini; e la vostra coscienza gli darà prodigi di forza e di conforto ineffabile. Unificate l’ Italia, la patria vostra». È in questo momento, autunno del 1847, che Pio IX comincia a rendersi conto che il gioco della briglia lasciata a Ciceruacchio e con lui alla «rivoluzione italiana» comincia a farsi pericoloso. Ha un moto di stizza contro Pietro Sterbini, che sul «Contemporaneo» aveva proposto una lettura troppo estensiva delle funzioni della Consulta di Stato; si rammarica, in dicembre, del giubilo con cui a Roma sono state accolte le notizie provenienti dalla Svizzera dove le truppe federali (liberali) hanno domato la ribellione dei sette cantoni conservatori (cattolici) del Sonderbund. Ma ormai il «movimento» di Ciceruacchio, che non perde occasione di festeggiare nel nome del Papa ogni evento rivoluzionario di quel 1848 che è solo agli inizi, fa la politica di Roma. Così quando il Papa pronuncia, a febbraio, l’ allocuzione «Benedite, gran Dio, l’ Italia», quelle parole, che nelle intenzioni del Pontefice volevano ribadire concetti già espressi nei mesi precedenti, hanno invece un effetto esplosivo. E tutto inizia a precipitare. Il Papa deve concedere la Costituzione, l’ arruolamento volontario per la guerra contro l’ Austria, la partenza delle truppe agli ordini del generale Giovanni Durando. Ma poteva davvero il Papa prendere parte a una guerra contro una potenza cattolica come l’ Austria? No, è evidente. Probabilmente Pio IX voleva solo essere in sintonia con quel che andava accadendo e immaginava che l’ Austria si sgretolasse. Ma sbagliava. E fu costretto a riconsiderare le sue posizioni. Le truppe pontificie si fermarono a Bologna. E alle rimostranze del «movimento» la risposta fu di chiamare al governo due riformatori: prima Terenzio Mamiani e poi Pellegrino Rossi. Nella cospirazione per uccidere il quale fu coinvolto, con un ruolo da protagonista, il figlio maggiore di Ciceruacchio (e probabilmente lo stesso Ciceruacchio). E a questo punto il cerchio si chiude: il Pontefice, al quale Brunetti resta vicino quasi fino alla fuga a Gaeta, il 27 novembre del 1848 firma un decreto con il quale annulla tutto quello che aveva concesso nei mesi precedenti. L’ avvincente libro di Claudio Modena, più che su quella del capopopolo romano, induce a riflettere sulla figura di Papa Mastai nello strano biennio iniziale del suo pontificato. È un capo di Stato che si illude di cavalcare l’ onda della popolarità e che non sa calcolare cosa potrà capitare quando quell’ onda andrà ad infrangersi su uno scoglio ben visibile fin dall’ inizio del suo pontificato. Un libro che dovrebbe leggere con attenzione qualunque uomo pubblico illuso che un cedimento all’ adulazione delle masse non comporti, prima o poi, il pagamento di un prezzo.
Bibliografia
Si apre con una prefazione di Giulio Andreotti il libro di Claudio Modena Ciceruacchio (Mursia, pp. 306, Euro 20). La biografia più completa di Pio IX è quella in tre volumi di padre Giacomo Martina (Pontificia Università Gregoriana): da segnalare anche quelle di Roberto de Mattei (Piemme) e di Almo Paita (Bur). Sul biennio 1848-49 a Roma: Stefano Tomassini, Storia avventurosa della rivoluzione romana (Il Saggiatore); Claudio Fracassi, La meravigliosa storia della repubblica dei briganti (Mursia).