Ernesto Galli Della Loggia Corriere della Sera 19 luglio
A scadenza fissa la Germania torna a presentarsi come la detentrice del primato in Europa, e quindi come la candidata elettiva alla sua guida. Aggirato e rimosso in varie maniere, è questo il dato centrale da cui ogni discussione sull’unità europea, – ogni discussione vera, e cioè che non navighi nei cieli delle chiacchiere e delle buone intenzioni – dovrebbe partire. È un fatto: la Germania ha una naturale spinta a primeggiare – e di gran lunga – su tutti gli altri Paesi dell’area continentale (esclusa quindi la Gran Bretagna, fondamentalmente grazie alla sua antica insularità oceanica); e questa spinta a primeggiare tende, prima o poi, a trasformarsi in una volontà di strutturazione centralizzata dell’intera area europea sotto il comando di fatto di Berlino.
La spinta tedesca al primato nell’Unione Europea ha dunque un che d’inevitabile. Appartengono infatti alla Germania la popolazione più numerosa, le esportazioni più cospicue, l’economia più forte sostenuta da un’alta produttività, la tecnologia e la ricerca tra le più avanzate, strettissimi legami linguistici e/o culturali e quindi d’influenza con numerosi altri Paesi come Austria, Svizzera, Danimarca, Lettonia, Estonia; infine essa possiede una posizione geografica che la proietta immediatamente verso Oriente, fino alla Russia, con funzioni di naturale economia-guida se non di vera e propria leadership culturale. Da 150 anni l’Europa è chiamata a fare i conti con la potenza tedesca. Egualmente, da 150 anni la Germania cerca come giustapporre la sua potenza alla struttura tradizionale dell’Europa, cerca come rendere in qualche modo compatibile la prima con la seconda.
Per ben due volte nel corso del secolo scorso, nel 1914 e poi di nuovo nel 1939, la via scelta dalla potenza tedesca è stata come si sa la guerra: cioè la decisione di tradurre la propria potenza in dominio, di attuare « manu militari » il disegno di una grande sfera d’influenza e di conquista all’interno dello spazio europeo.
Oggi non siamo di fronte a nulla di simile, per fortuna. Ma la sostanza del problema di fondo è la medesima: quali rapporti possono esserci tra la Germania e l’Europa, tali da far combaciare il peso soverchiante della prima, i suoi modelli economici, culturali e ideologici, con le esigenze di autonomia del sistema degli Stati nazionali che caratterizza la seconda? Tali da far stare le due cose insieme? Il problema non sarebbe oggi così drammaticamente evidente se in tutti questi decenni del dopoguerra, da che è tornato ad essere il Paese principe dell’Europa, alla Germania fosse riuscita l’operazione di trasformare la sua crescente potenza, anziché in aspirazione al dominio, in esercizio di un’egemonia. In capacità di costruire un’egemonia.
Il dominio – sia che prenda una forma bellico-militare sia che prenda quella dell’imposizione di regole e vincoli economici – alla fine appare sempre a chi lo subisce l’espressione diretta di puri rapporti di forza, e pertanto qualcosa di duro, di autoritario, di necessariamente odioso. L’egemonia, viceversa, è la capacità di trasformare la potenza in una vasta e multiforme influenza indiretta, esportando modi di vita e di pensare, popolarizzando personaggi e luoghi-simbolo, modellando l’immaginario altrui secondo il proprio, dando forme nuove, le proprie, agli oggetti della quotidianità. L’egemonia, per capirci, è ciò di cui si sono mostrati e si mostrano supremamente capaci gli Stati Uniti: con Hollywood, Lincoln, i jeans, la Statua della libertà e la Coca-Cola.
Ma è proprio ciò di cui non si mostra capace la Germania. Rispetto all’Europa essa non riesce ad esportare altro che automobili e frigoriferi, riesce ad associare il suo nome solo all’aspirina e ai semiconduttori elettronici. Nessun europeo ha mai cantato una canzone tedesca, letto un libro giallo tedesco, o visto, tranne quelli con l’ispettore Derrick, un film tedesco. È vero, Berlino è un mito della gioventù europea ma, sospetto, molto più per il livello dei suoi servizi, il basso costo della vita e le generose opportunità economiche verso gli stranieri, che per la bellezza architettonica della Potsdamer Platz o per altro. Tra il Tiergarten e il Central Park continua a non esserci partita.
In tal modo alla Germania fanno difetto in Europa la generica simpatia, il consenso, che un tal genere di egemonia procura. E forse anche per questo essa non riesce a tradurre il suo potere economico in vera leadership politica: qualcosa di cui però essa per prima, paradossalmente, sembra non sapere che cosa sia e quasi non avvertire il bisogno. Trincerata dietro le sue ammirevoli performance produttive e l’altrettanto ammirevole qualità della sua vita civile, la Germania attuale appare ben poco interessata, infatti, a trasmettere un’immagine di sé che vada oltre questi aspetti. E così, nel modo come si propone all’esterno, essa appare fondamentalmente autoreferenziale, tutta riconducibile solo alle sue statistiche, incapace di proporre all’Europa una prospettiva che vada oltre il feticistico «rispetto delle regole» così ossessivamente richiamato in questi ultimi tempi.
Ma «il rispetto delle regole» può andar bene come norma fondamentale per un condominio, non per un progetto storico di una portata così ambiziosa come quello dell’unione del Continente. Con il rispetto delle regole non si è mai creato nulla, e mai nulla si creerà. Per questo ci vuole la politica, solo la politica: quella cosa fatta di passioni e di audacia, di lungimiranza e di creatività, e poi anche delle parole per dirlo, che nessuno avrebbe mai pensato che proprio la patria di Schiller e di Weber potesse mai dimenticare.