Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 3 ottobre
Vivo in Canada e ho un coinquilino somalo, emigrato nel Nuovo Mondo nel 1994, quando era bambino. Gli ho chiesto la sua opinione riguardo all’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia tra il 1950 e il 1960, e lui m’ha spiegato che, in base ai suoi ricordi personali e a quanto gli dicevano i suoi parenti, gli italiani si sono comportati «abbastanza bene» durante gli anni di questo protettorato. Ha aggiunto che fecero meglio gli italiani dei britannici, e che i problemi seri iniziarono quando gli europei lasciarono la Somalia al suo destino. È d’accordo con queste parole? Che cosa fu di preciso l’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia?
Davide Chicco
Caro Chicco, L’amministrazione fiduciaria della Somalia fu il premio di consolazione che l’Italia ricevette per una battaglia perduta. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando cominciarono i negoziati per il Trattato di pace, De Gasperi e il suo ministro degli Esteri, Carlo Sforza, si batterono con gli Alleati per evitare che l’Italia fosse privata di tutte le sue colonie. Sapevano che l’Etiopia era irrimediabilmente perduta, ma speravano che la conservazione delle altre (Eritrea, Libia e Somalia) fosse ancora possibile. Usarono tutti i classici argomenti del colonialismo italiano. L’Italia era una nazione proletaria, priva di materie prime, ma ricca di braccia e affamata di terra per i suoi figli. In Libia aveva reso coltivabili larghe zone che non avevano mai conosciuto l’aratro, creato città e borghi, costruito una grande strada, la Balbia, che si estendeva lungo l’intera costa. Se il Paese fosse stato privato delle sue colonie, la piaga della disoccupazione avrebbe frenato il processo di ricostruzione e creato una pericolosa instabilità sociale. La realtà, fortunatamente, sarebbe stata alquanto diversa, ma quello ero lo stato d’animo diffuso allora nel Paese e quelli erano gli argomenti di cui i diplomatici italiani si servivano al tavolo delle trattative. Vi fu una schiarita quando Roma e Londra sembrarono prossime a un accordo sulla creazione in Libia di due zone d’influenza: la Tripolitania all’Italia, la Cirenaica alla Gran Bretagna. Ma l’Unione Sovietica si oppose e la Libia, qualche anno dopo, divenne un regno sotto l’ala protettrice degli inglesi. Terminata male la battaglia per la conservazione delle colonie, l’Italia cercò di conquistare almeno un posto nel processo di decolonizzazione e riuscì a diventare il tutore e custode della Somalia nella fase che avrebbe preceduto l’indipendenza. Per evitare parole come «protettorato» e «mandato», fu coniata l’espressione «amministrazione fiduciaria»; e per impedire che il provvisorio diventasse permanente fu deciso che la missione italiana sarebbe durata dieci anni, dal 1950 al 1960. Palazzo Chigi, dove era allora il ministero degli Esteri, prese la cosa molto seriamente e si servi dei funzionari dell’Africa italiana ancora in servizio per creare le strutture amministrative del nuovo Stato. Una parte del personale fu formata in Italia. Gli allievi del corpo di polizia frequentarono i corsi della scuola allievi carabinieri e qualche aspirante diplomatico fece un tirocinio in ambasciate o consolati italiani. Quando giunse il momento di consegnare la Somalia ai somali, fu inviato a Mogadiscio un ministro della Repubblica. Era Giuseppe Medici, un notabile modenese di vecchio stile con il mento ornato da una piccola barba, molto elegante. Vi fu una cerimonia durante la quale la bandiera italiana venne ammainata, scrupolosamente ripiegata e consegnata al ministro che l’avrebbe riportata in Italia. Qualche tempo dopo Medici mi disse che non era riuscito a trattenere le lacrime. Così finì, caro Chicco, il colonialismo italiano.
Sergio Romano