Aldo Cazzullo Corriere della Sera del 7 ottobre
Il nonno della guerra non parlava mai. In casa non c’erano diplomi da cavaliere di Vittorio Veneto, medaglie, cimeli. È rimasta la foto in divisa da bersagliere, con le piume di struzzo sul cappello.
I ragazzi sloveni che videro arrivare i primi bersaglieri sull’Isonzo, venuti a «liberarli», corsero a chiamare i padri dicendo: «Ci sono le ballerine!». Il nonno era un ragazzo del ’99. Fu richiamato dopo Caporetto. Salì su uno dei treni di cui si cantava: «La tradotta che parte da Torino/ a Milano non si ferma più/ perché va diritta al Piave/ cimitero della gioventù». Qualcosa però era cambiato, rispetto alle stragi dei primi anni di guerra.
Non si doveva più avanzare sotto il fuoco nemico in terra slava, per conquistare città in cui nessuno era mai stato e montagne che nessuno aveva mai sentito nominare. C’era da difendere terra italiana, palmo a palmo, per impedire che gli austriaci se la riprendessero tutta. Era un’operazione che ai contadini com’era il nonno, com’erano quasi tutti i soldati italiani, risultava familiare. Non a caso, fu la cosa che fecero meglio in tutta la guerra: difendere la loro, la nostra terra. Oggi i fanti non ci sono più. La memoria diretta della Grande guerra si è spenta per sempre. Adesso è affidata a noi. Sta a noi figli, nipoti, pronipoti recuperare le loro storie, e raccontarle ai nostri ragazzi. Forse può essere utile a loro e a tutti noi italiani, ora che abbiamo sempre meno fiducia in noi stessi e nel nostro futuro, ricordare che un secolo fa l’Italia fu sottoposta alla prima grande prova della sua giovane storia. Poteva essere spazzata via; invece resistette. Dimostrò di non essere soltanto «un nome geografico», come credevano gli austriaci, ma una nazione.
Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità di una classe politica, intellettuale e affaristica che trascinò in guerra un Paese che nella grande maggioranza voleva la pace. Ma aiuta a ricordarci chi siamo, su quali sofferenze si fondano la nostra indipendenza e la nostra libertà; e può essere utile ad alzare lo sguardo su un avvenire che non è segnato né nel bene né nel male, ma dipende soprattutto da noi. Questo non vale solo per gli uomini. Vale anche, se non soprattutto, per le donne. Di solito la guerra è considerata una roba da maschi. Ma non la Grande guerra. E non soltanto perché sul fronte ci furono crocerossine, portatrici, prostitute, spie, giornaliste, persino soldatesse in incognito. Le donne rimaste a casa dimostrarono di saper fare i lavori «da uomo»: tenere il ritmo alla catena di montaggio, guidare i tram, saldare il metallo, caricare i camion, e anche frequentare l’università, scioperare, reclamare i propri diritti. Al di là della gelata del fascismo, la Prima guerra mondiale dimostrò in tutta Europa che la donna era pronta a uscire di casa per lavorare, rendersi indipendente, costruirsi il proprio destino e contribuire a decidere il destino della nazione.
Forse si deve anche a questo imponente fenomeno storico, oltre che all’amore per l’Italia e per la propria famiglia, se la memoria della Grande guerra — come confermano i racconti che mi sono arrivati via Facebook e che pubblico in fondo al libro — è custodita soprattutto dalle donne. Per questo i capitoli alternano storie di uomini e di donne. La Grande guerra non ha eroi. Non c’è un Annibale, un Cesare, un Alessandro Magno. Altre guerre, per esempio quelle napoleoniche, portano il protagonista nel nome. Il secondo conflitto mondiale è legato al ricordo dei vincitori – Roosevelt, Churchill, Stalin – e dei vinti: Mussolini e Hitler. Oggi nessuno, tranne gli storici, si ricorda di Cadorna o di Hindenburg. Gli eroi, o meglio i protagonisti della Grande guerra, sono i nostri nonni. È la grande massa dei corpi sacrificati alle atrocità della guerra industriale. Sono i feriti, i mutilati, gli esseri rimasti senza volto, talora non in senso metaforico: le gueules cassées, le facce deformate dalle schegge e dalle esplosioni. Raccontare la guerra con gli occhi di chi l’ha vissuta è una discesa agli inferi. I diari, le lettere, le cartoline restituiscono una sofferenza che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Gli assalti inutili. Le decimazioni. I fanti divenuti folli. Rileggere le loro cartelle cliniche è terrificante. In manicomio c’era un soldato che passava le giornate a contare: contare i morti era l’incarico che aveva ricevuto in trincea. Altri chiamavano di continuo la mamma o il papà, vedevano austriaci dappertutto, piangevano nel timore di essere fucilati.
Gli stupri: migliaia di donne nel Friuli e nel Veneto al di là del Piave furono violentate, nell’anno in cui un milione di italiani rimase in balia dell’esercito asburgico. Nove mesi dopo Caporetto cominciarono a nascere i primi bambini; e non si sapeva dove metterli. Gli orfanotrofi li rifiutavano, perché non erano orfani. Ma i maschi di casa non volevano tenere «il piccolo tedesco». Si dovette aprire un istituto, a Portogruaro, per i figli della guerra. Cinquantanove donne convinsero i mariti a riprendere il piccolo: «Lo alleveremo come se fosse nostro». Molti di più furono i neonati che morirono per mancanza di latte. Centinaia di madri andavano di nascosto dagli uomini all’istituto, per nutrire o rivedere i figli; fino a quando il direttore non scrisse una lettera straziante: «Non venite più, perché i bambini vogliono venire via con le mamme, e noi cosa gli diciamo?». Poi ci sono le storie a lieto fine. Che, paradossalmente, sono la maggioranza. Perché i sopravvissuti hanno avuto qualcuno a cui tramandare la loro vicenda. I morti spesso erano ragazzi che non hanno avuto figli e nipoti cui affidare il loro ricordo. Il recupero della memoria della Grande guerra, cent’anni dopo, è un dovere nei confronti dei salvati e più ancora dei sommersi. Perché il mare grande dell’oblio talora restituisce un frammento del grande naufragio — uno scheletro, una fotografia, un racconto di famiglia, un diario di guerra — da cui si indovina la storia di un giovane che cent’anni fa era «alto, bello e ben fatto» come sono oggi i nostri ragazzi.