Articolo di Giovanni Belardelli dal Corriere della Sera del 20 giugno 2013
Criticare i titoli per la prova di italiano della maturità è diventata ormai un’abitudine, alla quale ci si vorrebbe almeno per una volta sottrarre. Ma di fronte alle tracce scelte quest’anno astenersi da ogni commento appare quasi impossibile. Soprattutto se guardiamo allo spirito complessivo che sembra aver guidato gli esperti ministeriali: uno spirito improntato al più vieto culto della contemporaneità, a un ostentato desiderio di essere, o almeno di apparire, il più up to date possibile. Agli studenti era richiesto, ad esempio, di analizzare un brano di Claudio Magris, scrittore del quale molti di loro difficilmente avevano sentito parlare nelle aule scolastiche; oppure di conoscere avvenimenti come l’assassinio di Aldo Moro, rimasti nove volte su dieci al di fuori dai programmi di storia dell’ultimo anno di corso. O ancora, nel caso del tema storico — e qui il culto della contemporaneità è arrivato davvero a superare il ridicolo — lo studente era invitato ad occuparsi dei Brics, l’acronimo coniato una decina d’anni fa dall’economista Jim O’Neill per indicare i Paesi un tempo in via di sviluppo e ormai ascesi ai vertici della produzione mondiale.
Gli esempi fatti sono solo i più evidenti di una ossessione per la contemporaneità che percorreva un po’ tutte le tracce. Non sto dicendo, naturalmente, che il mondo contemporaneo debba rimanere al di fuori delle mura scolastiche. Assolutamente no. Ma una scuola che sembra ostentare quanto sia moderna e al passo con l’attualità rischia per ciò stesso di schiacciarsi sull’oggi e di non rendere un buon servizio ai propri alunni e al Paese. In un mondo nel quale i giovani vivono letteralmente dentro il web, costantemente collegati attraverso i social network con l’intero globo, la scuola dovrebbe essere piuttosto il luogo in cui soprattutto coltivare o recuperare un rapporto meno immediato con il qui e ora. Dovrebbe essere il luogo in cui l’immersione totale nel presente che caratterizza sempre più la cultura e la vita ai tempi della Rete possa interrompersi almeno per alcuni momenti, per guardare «da fuori» un’attualità in cui siamo tutti immersi (i giovani assai più di chiunque altro) e magari poterla capire un po’ meglio.
Una scuola veramente al passo coi tempi, come usa dire, dovrebbe forse mostrarsi capace di coniugare la contemporaneità con una cosa che della scuola, in Italia e non solo, è stata a lungo il fondamento ma che oggi è diventata quasi indicibile: una tradizione culturale e i valori a essa connessi, che nel tempo hanno fatto del Paese ciò che è, con i suoi molti difetti ma anche qualche indubbia qualità. A suo modo questa funzione la svolse la scuola riformata novant’anni fa da Giovanni Gentile, finalizzata allora alla costruzione di un linguaggio e di una identità comuni per la classe dirigente italiana, come ricordava ieri Gian Arturo Ferrari su questo giornale. Non c’è dubbio che questa funzione di collegamento tra i problemi dell’oggi e la nostra tradizione culturale è diventata da tempo problematica. Ma se dovessimo giudicare dalle scelte degli esperti ministeriali per la maturità dovremmo mestamente concludere che la scuola italiana ha deciso di non misurarsi più su questo terreno. Come se ormai volesse procedere per un’altra strada, desiderosa di digitalizzarsi non solo nella strumentazione tecnica ma nella immersione totale nella contemporaneità globale.