Ernesto Galli della Loggia
Corriere della Sera 13 dicembre
Domenica sera, 13 dicembre, in Francia, la classe politica di governo – Hollande o Sarkozy o entrambi, non importa – penserà di aver vinto le elezioni. E così di aver fatto il proprio dovere, di avere alla fine sconfitto la minaccia del «populismo», sia pure con l’aiuto di una legge elettorale dallo strepitoso premio di maggioranza, contro la quale, peraltro, non mi sembra che si sia levata in questa occasione neppure la più timida critica da parte dei sacerdoti nostrani del proporzionalismo. Partita chiusa, dunque: la vita ricomincia, la democrazia europea ha vinto.
Ma ha tutta l’aria di essere una vittoria che lascia il tempo che trova. La partita vera, infatti, si è appena aperta. È la partita, di cui in Francia è andata in scena solo una mano, che vede il nostro continente alle prese con una condizione storica nuova e sempre più difficile. Una stagnazione economica di lungo periodo sta erodendo implacabilmente l’intero tessuto sociale (a cominciare per esempio dal rapporto tra le generazioni), e insieme i margini di tutte le politiche sociali; la costruzione dell’Unione europea, d’altra parte, mostra sempre di più le sue contraddizioni e specialmente la sua incapacità di esistere su un qualunque terreno politico; per la prima volta negli ultimi quindici secoli, poi, una grande migrazione si rovescia da altri continenti sulle nostre contrade, creando problemi e tensioni interne di ogni tipo; ai confini d’Europa, per finire, esplodono conflitti di una vastità ma soprattutto di una qualità inedite quanto temibili.
Una grande potenza, la Russia, si fa intanto di nuovo minacciosamente sentire alle sue porte, e viceversa il Grande Protettore di sempre, gli Stati Uniti, appare solo desideroso di tenersi il più lontano possibile da tutto. Viviamo oggi in un’Europa che finisce di risvegliarsi dal sogno del lungo e felice dopoguerra, e improvvisamente si scopre se non vicina a un punto di rottura, certamente davanti a una drammatico cambiamento di scenari storici. Un cambiamento di fronte al quale le sue classi politiche appaiono, quale più quale meno, tutte quante immerse in una sconsolante mediocrità, incapaci di comprendere ciò che sta succedendo, di immaginare risposte adeguate, sorde ai nuovi orientamenti e alle nuove domande che nascono nell’opinione pubblica. Anche la cancelliera Merkel, che è quanto di più vicino esista all’immagine di uno statista europeo, non riesce in realtà a sottrarsi ad una visione sostanzialmente sempre germanocentrica. Ci si può meravigliare se i sistemi politici e istituzionali nei quali le classi politiche europee sono abituate da decenni a farla da padrone raccolgono tra i cittadini una fiducia e un consenso sempre minori?
Di tutto questo ci parla l’esempio della Francia, a dispetto della soddisfazione d’obbligo di cui farà mostra il vincitore di stasera: del declino delle élite politiche europee. Nel lontano 1945, subito dopo la fine della guerra mondiale, la democrazia continentale poté contare per la sua nascita e il suo primo radicamento su una generazione di capi e di quadri selezionati e ammaestrati dalla terribile lezione della vittoria dei totalitarismi, e dalle vicende della grande politica in anni di ferro e di fuoco; una generazione cresciuta in una quotidianità di vita spesso aspra, fatta di pochi beni e di molte letture, di passione per le idee, trascorsa tra la gente comune. Fu la generazione dei De Gasperi, dei Mendès France, degli Adenauer, degli Schuman, degli Ollenhauer, dei Nenni, nel bene e nel male anche dei Togliatti e dei Tito: politici abituati a organizzare il mondo intorno a una visione generale fondata su valori forti. Seguirono, negli anni 60-70 e fino alla fine del secolo, uomini che avevano ancora fatto a tempo a sentire l’eco, e spesso più che l’eco, della temperie mondiale tra le due guerre: anche se perlopiù usciti dalla dura selezione delle piazze e dei comizi, dell’attività di governo, dallo scontro nelle assemblee. I Fanfani, i Kohl, i González, i Berlinguer: cresciuti sulle orme dei predecessori ne conservarono in qualche modo le idealità, seppure con l’accresciuta scaltrezza, tinta di cinismo, di un partitismo ormai maturo. Anche per questa scaltrezza, ma specialmente per la pronta intelligenza delle cose alte come di quelle basse, per lo stile istituzionale sostenuto, per l’alto registro della sua eloquenza, François Mitterrand resta nel ricordo il massimo e ultimo statista di quella stagione della democrazia europea.
Poi c’è stato il dopo, il tempo che viviamo: senza più statisti, affollato solo da politici. Da politici in genere selezionati da nulla se non dal caso o dall’obbedienza, passati attraverso nessuna prova, trovatisi scodellata la pappa già bella e pronta: abituati più che a convincere una riunione di militanti o di elettori, ad ammaliare un pubblico televisivo. Ci guidano élite politiche, classi di governo, fisiologicamente prive di qualunque originalità coraggiosa, altamente omogeneizzate nella banale convenzionalità delle idee eguali dominanti a destra come a sinistra. Élite politiche, classi di governo, composte di uomini e donne nella cui formazione si sente l’assenza, comune ormai a tutta la nostra cultura, della storia – della lezione di alta drammaticità e della tensione etica che è propria della narrazione storica – a pro, invece, della consequenziarietà ingannatrice di troppi ragionamenti economici. Uomini e donne che sono figli di società come le nostre: ricche, indulgenti, permissive, psicologicamente e culturalmente lontane mille miglia dall’idea del tragico e della lotta. Dall’idea che la politica possa avere qualcosa a che fare con Dio e con la morte.
L’Europa, insomma, affronta il momento forse più gravido di scelte della sua storia recente con le élite politiche più mediocri della sua non lunga vicenda democratica. Stasera, quando l’uno o l’altro celebrerà sui nostri schermi la propria inutile vittoria, Hollande e Sarkozy ce lo rappresenteranno, c’è da giurarci, in modo inarrivabilmente patetico.