Via Ricasoli. La pietra d’inciampo che ricorda Goffredo Paggi
Un amore nell’ora della Shoah
La storia di Goffredo Paggi, vittima dei rastrellamenti nazisti e morto ad Auschwitz,e della fidanzata Anna Caterina Dini. Il ricordo del figlio della donna Roberto Visconti
Ci sono amori che non finiscono mai anche se sono attraversati dalla valanga della Storia grande e accompagnati dal conforto di figli nati da altri incontri, anche se vengono diluiti in altre vite. Ci sono amori così: come quello tra Goffredo Paggi (Pitigliano, 25 dicembre 1913-Auschwitz, 30 aprile 1944) e Anna Caterina Dini, pratese del 1920 che a Prato è morta 89 anni dopo. A Goffredo, vittima dei rastrellamenti degli ebrei a Firenze avvenuti dopo l’8 settembre del ‘43, hanno appena dedicato una pietra d’inciampo in via Ricasoli, davanti al civico 26 dove lavorava come contabile per l’azienda che si occupava della bonifica della piana sestese realizzata dai fascisti che assoldavano a cottimo giovani ebrei, e dove fu arrestato il 7 dicembre del ‘43. Rimase qualche giorno nel carcere delle Murate, poi fu tradotto a San Vittore a Milano e da qui portato forzatamente nel campo di concentramento polacco in quello stesso convoglio che, partito dal binario 6 della Stazione Centrale, avrebbe visto partire, il 30 gennaio del ‘44, anche Liliana Segre. Lei si sarebbe salvata, il trentenne Goffredo no.
Anna Caterina, la sua amatissima fidanzata di pochi mesi — la prima lettera d’amore in cui lui le confessa i suoi sentimenti, spaventato di un diniego anzi terrorizzato di perderla, è del 29 maggio del ‘43 — lo cercherà a lungo. Chiederà notizie di lui in Sinagoga e a tutti gli ebrei di Firenze, senza trovare risposte né sul suo uomo né, tanto meno, della sua migliore amica, quella Lia Sara Millul, anche lei vittima dell’Olocausto e a cui Prato ha dedicato la giornata della memoria di due anni fa. Una tragedia immane: nel giro di pochi giorni Anna Caterina perde le due persone che le sono più care, la sua amica più cara— le chiamavano le gemelle siamesi — e l’uomo che ama con un trasporto e una dedizione assoluta.
Questa storia la racconta Vera Paggi ne La breve estate (Panozzo editore) dove, con una lavoro d’inchiesta giornalistico minuziosissimo, ricostruisce le vicende dei due amati, dell’amica Lia e di un altro ebreo, l’unico della compagnia che riuscirà a salvarsi, Alessandro Smulevich, che in quella breve estate amoreggia con Lia e che di Goffredo è amico e assistente al lavoro. Intorno a queste 4 figure commissari conniventi con il regime, probabili delatori (Alessandro Benucci che lavorava con Goffredo subirà un processo da cui uscirà indenne e resta il dubbio se sia stato lui a «consegnare» alle milizie naziste il collega) altre famiglie di ebrei, la generosa protezione data ai perseguitati dalla chiesa fiorentina guidata allora dal cardinale Elia Dalla Costa. Ma, soprattutto, nei passaggi più delicati di questa vicenda amorosa, le lettere che i due giovani amanti si scambiavano quando, lei a Prato e lui per lo più a Firenze, vivevano separati anche se solo per pochi giorni: finché fu possibile si vedevano una o due volte la settimana, prima il mercoldì, poi il sabato, qualche volta anche la domenica. Sono lettere struggenti e appassionate: Goffredo si stupisce di sé nello scoprirsi sempre più sensibile alla bellezza della natura e sempre più distratto al lavoro — lui che è coscienziosissimo — da quando l’ha conosciuta. E lei che saldamente lo asseconda, lo aspetta, lo cerca, va a trovarlo a Firenze tutte le volte che può.
Le ha ritrovate queste lettere, tra le carte di famiglie, il figlio di Anna Caterina, Roberto Visconti e le ha donate al Museo della Deportazione di Prato. «Leggendole ho ritrovato emozioni e parole che mi erano familiari sin da quando ero bambino— ricorda oggi Visconti — mamma mi parlava spesso di Goffredo. Sul cassettone della sua camera da letto teneva la sua foto e quella di Lia che non ha caso ha dato il nome alla mia sorella più grande e di cui conservava un ciuffo di capelli rossi che l’amica le aveva donato prima di separarsi per sempre (anche quel ciuffo di capelli ora è al museo di Prato ndr.)».
Roberto non ha figli e ha voluto che questa storia restasse patrimonio collettivo. Di più: lui che è attore noto ha da poco registrato alcune delle lettere che Goffredo Paggi scrisse alla mamma per realizzare un podcast commissionato dalla Rai. Proprio lui che oggi osserva: «Se Goffredo si fosse salvato magari io non sarei qui. O forse sì, ma sarei un’altra persona». Quell’uomo la cui morte è stato presupposto della sua vita lo ha accompagnato per tutta la vita. «Dopo la morte di Goffredo mamma rimase da sola per molti anni. Poi conobbe mio padre, da cui avrebbe avuto due figli, mia sorella Lia e io». Una relazione nata male la loro, sulle ceneri ancora calde, malgrado fossero già passati dieci anni dalla morte di Goffredo, di un amore più grande. Indimenticabile evidentemente se è vero che la mamma e il papà di Roberto si sono separati quando lui aveva appena sei mesi. Il padre si ricostruirà una vita di coppia. Lei chiuderà ogni pratica sentimentale. Il ricordo di Goffredo è troppo forte, la voglia di non dimenticare lo è altrettanto. Il trauma subito di quelli con cui devi fare i conti per tutta la vita.
Chiara Dino Corriere Fiorentino 24 gennaio 2024