Giovanni Belardelli Il Foglio Quotidiano 20 gennaio 2022
Anche quest’anno, il 27 gennaio, celebreremo il Giorno della memoria, benché forse un po’ oscurato nell’attenzione collettiva dalle contemporanee votazioni per il presidente della Repubblica.
Dovremmo tuttavia cominciare a riflettere, a più di vent’anni dall’istituzione di questa giornata, sul suo significato ma anche sui suoi limiti. La questione è delicata ed è bene dunque essere chiari. Anzitutto, non c’è alcun dubbio che di una iniziativa del genere ci fosse bisogno per rompere una dura e antica crosta di indifferenza. L’Italia democratica, infatti, per molti anni non si è troppo curata di ricordare in modo adeguato lo sterminio degli ebrei e nemmeno la parte avuta dal nostro paese nella persecuzione. La guerra era terminata da pochi mesi e una figura di rilievo come Cesare Merzagora addirittura invitava gli ex perseguitati che rientravano nel paese a “non lamentarsi troppo” e a prendere atto che l’italia era cambiata: “Essi devono abituarsi a star seduti attorno al tavolo non sopra e neanche sotto, come un po’ è loro abitudine”. Liliana Segre ha raccontato di recente che da giovane, appena arrivata a Milano dopo Auschwitz, si sentì dire dalla professoressa di greco, davanti a tutta la classe, che la sua deportazione era “un’esperienza interessante”. Ne fu così sconvolta che per anni non ne parlò più.
Ma a quell’epoca era un po’ tutta l’opinione pubblica che non prestava attenzione al tema, anche per la difficoltà e l’imbarazzo a ricordare il clima di silenziosa accettazione che aveva accompagnato nel 1938 il varo della legislazione antiebraica. Quando nel 1960 la storia post 1919 venne finalmente inserita nei programmi scolastici, della Shoah e delle leggi razziali i manuali di storia parlavano poco o nulla. E a non parlarne non erano solo autori più o meno “nostalgici”. Nel 1970 anche uno storico di sinistra come Rosario Villari dedicava alle leggi razziali solo una riga del suo testo per le superiori.
Questa insensibilità o comunque scarsa attenzione verso lo sterminio antiebraico è stata studiata negli ultimi anni da vari storici. E qui la si richiama a riprova che qualcosa andava appunto fatto per costringerci tutti a prendere in carico un pezzo della nostra storia, europea e italiana, come quello rappresentato dalle varie forme della persecuzione antiebraica. Ma è anche vero che il Giorno della memoria, istituito nel 2000, è diventato spesso occasione per cerimonie e rievocazioni ogni anno più o meno uguali, che non è affatto detto aumentino la consapevolezza e la conoscenza dei caratteri della persecuzione antiebraica. E’ anzi probabile che nelle scuole una parte dei ragazzi e delle ragazze vivano quella giornata come un rituale più o meno ufficiale e ripetitivo. Certo gli insegnanti dovrebbero prepararli adeguatamente, ma c’è il rischio che a volte si limitino a far leggere Primo Levi o il diario di Anna Frank. Del resto è la stessa persistenza di pregiudizi antisemiti che sembra confermare la limitata influenza del Giorno della Memoria.
Il Rapporto Italia dell’Eurispes ha indagato nel 2004 e nel 2020 l’atteggiamento degli italiani riguardo alla Shoah. Dal confronto fra le due indagini si ricava, per citare un unico dato, che se nel 2004 solo il 2,7 per cento degli intervistati pensava che lo sterminio degli ebrei non c’era mai stato, nel 2020 questa percentuale risultava salita al 15,6 per cento. Non si possono trarre da un dato del genere conclusioni definitive; ma certo un aumento di questo tipo lascia ipotizzare uno scarso impatto del Giorno della memoria sull’opinione pubblica. Emergono qui anche i limiti di un rapporto con il passato e le sue tragedie basato sulla “religione della memoria”, come molti l’hanno definita, che da una parte rischia di sconfinare nella ripetitività e, dall’altra, si fonda su un veicolo – il racconto del testimone – dal forte impatto emotivo che però, come avviene spesso per le forti emozioni, non è di per sé sufficiente a far sedimentare una maggiore consapevolezza di ciò che viene rievocato.
C’è anche un’altra ragione che dovrebbe indurre a guardare in modo diverso al Giorno della memoria. Nel suo libro di ricordi Vivere ancora Ruth Klüger, austriaca deportata giovanissima ad Auschwitz, ha scritto: “Eppure Auschwitz viene attribuita come una sorta di luogo d’origine a chiunque le sia sopravvissuto. La parola Auschwitz ha oggi un’aura, seppure negativa, e determina largamente quel che si pensa di una persona quando si sa che è stata là […] ma io non sono originaria di Auschwitz, sono originaria di Vienna. Vienna è impossibile sfilarla di dosso, la si sente dal linguaggio; invece Auschwitz è stata estranea al mio essere come la luna. Vienna è una parte della struttura del mio cervello ed emana da me, mentre Auschwitz è il luogo più sbagliato in cui io sia mai stata […]”. Sono affermazioni da meditare, che implicitamente ci mettono in guardia contro il rischio di ricordare gli ebrei soltanto come vittime, quasi avessimo dimenticato lo straordinario contributo dell’ebraismo alla civiltà europea. E allora, nel Giorno della memoria dovremo certo ricordare i milioni di perseguitati, i morti e i sopravvissuti ( e potremmo mai non farlo noi gentili, condannati a sentirci responsabili anche se non eravamo nati?). Ma un modo di ricordare meno ripetitivo e scontato sarebbe quello di occuparci anche, ogni 27 gennaio, degli ebrei come non- vittime, parlando dunque – agli studenti in classe o nelle celebrazioni pubbliche – un anno di Freud e un altro di Einstein, un anno di Giorgio Bassani o di Hannah Arendt, un altro ancora degli ebrei che, fuggiti dall’Europa, hanno fondato lo stato di Israele.
Hannah Arendt