Veduta di via Tornabuoni, XIX secolo (Fondo Larderel, Gabinetto Vieusseux)
Donatella Lippi Corriere Fiorentino 24 dicembre 2020
Scriveva Niccolò Tommaseo nel 1830: «I Toscani chiaman pasqua anco la festa del Natale, e per distinguerla dalla pasqua di Risurrezione, dicesi poi pasqua di Natale, o di ceppo…».
E, in effetti, la prima delle tre parole del Natale fiorentino è proprio «ceppo», in origine un grosso pezzo di legno, cavo e con una o più piccole fessure per le offerte, usato come cassetta delle elemosine nelle chiese o negli ospedali. Contro uno di questi ceppi, Petruccio, protagonista della Novella 134 di Francesco Sacchetti, si accanisce con una scure, tanto che «’l ceppo si spezzò, e con tutti li denari e con lo Crocifisso ne viene in terra». L’Oratorio di San Niccolò del Ceppo in via de’ Pandolfini, a Firenze, l’Ospedale del Ceppo a Pistoia, il Ceppo dei poveri di Francesco di Marco Datini a Prato… Ma il ceppo era anche il grande tronco d’albero che ardeva sugli alari del camino, nelle case del contado, per Natale, sul quale il capofamiglia libava le gocce di vino, con un gesto antico e pagano, traendo gli auspici dalle scintille, che sprizzavano dal legno.
La seconda parola è «Cruscarella», ingenuo gioco usato nel contado, nascondendo delle monetine in un mucchietto di crusca, dove si sarebbero affannate le mani dei bimbi, alla ricerca del piccolo tesoro. La terza parola è «Cicalata», una semplice filastrocca, ricca di tenere aspettative: «Ave Maria del Ceppo, Angelo benedetto! L’Angelo mi rispose Ceppo mio bello, portami tante cose!».
Il ceppo, in città, infatti, dove i caminetti andavano scomparendo dalle abitazioni, era un supporto piramidale, con alcune mensole, su cui si ponevano dolci e piccoli doni: sul ripiano più basso, la culla del Bambin Gesù. Prima che Paolo Geymonat, pastore della chiesa valdese, introducesse l’uso dell’abete addobbato, intorno al 1870, era, infatti, la Capannuccia simbolo esclusivo del Natale, da quelle con le figure animate di Bernardo Buontalenti, detto, appunto, Bernardo delle Girandole, al presepio di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, «largo e sfogato quanto una scatola da cappelli, coperto modestamente di prezzemolo o di borraccina, con dentro due pastori di gesso sbocconcellati e i soliti tre Magi vestiti da coristi, e un bue e un asinello color di caffè e latte sdrajati per terra, in atto di soffiare nella pappa, e fra loro un bambinello, anche quello di gesso, coi capelli biondi come la farinata gialla e con due gote rosee come due macchie di vino, e su nell’alto del presepio, con gran loglio tutto tinto d’ inchiostro, perché somigliasse all’azzurro del firmamento, e una lunga stella d’olio nel mezzo, illuminata di dietro, perché facesse la parte di cometa e servisse di guida ai prelodati coristi!».
Telemaco Signorini Ponte Vecchio 1880
Al rito della messa in Duomo, nella notte di Ceppo, faceva seguito una sosta al forno del Melini, in Ponte Vecchio, famoso per essere stato effigiato da Telemaco Signorini, grande estimatore della Stiacciatunta, oggi «Schiacciata alla Fiorentina» che, «dall’uccisione del primo porco a Novembre, fino all’ultimo giorno del Carnevale, forniva agl’indigeni questo gradito cibo, finché lo scocco della campana di mezzanotte del dì delle Ceneri faceva sì che il pane di ramerino prendesse il suo posto».
Poi, nel giorno di Ceppo, l’imponente corteo dei Cavalieri di Santo Stefano, «vestiti in cappamagna, ed armati come quando sulle galere combattevano contro i turchi» — racconta Giuseppe Conti (1899) — riempiva il centro coi riverberi delle corazze, il nitore delle brache di velluto dei soldati, la ricchezza delle gualdrappe dei mentre un’altra processione si formava dopo la messa, quella dei carcerati «ritenuti per le spese», riscattati dai Buonomini di San Bonaventura. Non spade lucenti in mano, ma ramoscelli d’olivo.
Invece i giovani più ardimentosi si cimentavano nel tuffo in Arno per poi gustare i cocomeri, che durante l’estate erano stati unti d’olio e posti sotto la sabbia per poterli conservare.
1890 Bagno “Cavalleggeri”
I berriquocoli, sfratti e marzapanetti impreziosivano le mense, ben prima del Panettone Marietta di Pellegrino Artusi, giunto insieme ai cappelletti all’uso di Romagna e crostini di fegatini, preludio a cappone, lepre e faraone…
Ma allora, come oggi, le luci del Natale illuminavano realtà discordi. Camminando per le strade di Firenze, racconta Yorik (1877), avvocato e scrittore, ci si poteva imbattere, infatti, in due «Natali» ben diversi: «…uno che è un fior di gentiluomo. Veste elegantemente, parla con disinvoltura, s’infila i guanti, e ha il portafoglio pieno di biglietti di banca al posto delle carte da visita». È questo il Natale facoltoso, che frequenta le sale di Doney, che fa acquisti nel centro ricco della città, al Bazar Europeo, tra le cineserie dei magazzini di Janetti, in piazza Antinori, ne’ saloni di madama Lamarre, in via dei Banchi, o da madama Ferrand, in via Rondinelli, spingendosi fino a via della Mattonaia, nella gioielleria Marchesini, tra i riverberi dei monili e delle pietre preziose. E poi, l’altro Natale, «stanco, trafelato, lagrimoso e mal vestito… sotto il tetto degli sventurati, presso il focolare spento dove la pentola non bolle più da tante settimane, nelle soffitte dove il freddo penetra dalle impannate, dove la miseria suda colla pioggia delle pareti mal ferme… e si trascina penosamente verso il Monte di Pietà, per le scale degli Asili infantili, fra le corsie degli spedali, muto, afflitto, ora rassegnato ora impaziente, mormorando una preghiera, o lanciando una imprecazione».
Vittorio Corcos Ritratto di Yorick 1889
Oggi, sono cambiati i contesti, ma l’uno e l’altro Natale riflettono ancora, e quest’anno, forse, in maniera ancor più vistosa, i lati più bui e stridenti del nostro mondo. E se Yorik conclude rassegnato «…la novella non finisce mai, ché ogni anno si ricomincia da capo, e i due Natali ritornano nelle medesime condizioni», vorremmo scegliere la fine del Canto di Natale di Charles Dickens, quando il vecchio Ebenezer Scrooge «divenne così buon amico, così buon padrone, così buon uomo, come se ne davano un tempo nella buona vecchia città, o in qualunque altra vecchia città, o paesello, o borgata nel buon mondo di una volta… E di lui fu sempre detto che non c’era uomo al mondo che sapesse così bene festeggiare il Natale. Così lo stesso si dica di noi, di tutti noi e di ciascuno!».
Dickens Canto di Natale