Massimo Ragazzini
Gianni Morelli, scrittore ravennate, dedica un capitolo del suo recente libro, Farfalle irrequiete, al mito del Passatore, nome con cui è noto il bandito Stefano Pelloni.
Pelloni nacque il 4 agosto del 1824, ultimo di dieci figli, a Boncellino, borgo sulla riva sinistra del fiume Lamone, frazione del comune di Bagnacavallo. I genitori, Girolamo e Maria Francesca Errani, erano contadini in proprio che arrotondavano le risorse del podere con l’esercizio del traghetto. Mancando il ponte, infatti, una barca collegava le due sponde del Lamone all’altezza del paese. I Pelloni ne guadagnarono il pubblico appalto nella prima metà del Settecento e, con il mestiere, il soprannome di ‘passatori’.
La sua carriera criminale, ci ricorda lo storico Dino Mengozzi, iniziò a diciotto anni, nel settembre 1842, con un furto di fucili a danno di alcuni braccianti. Arrestato dalla colonna mobile di Russi il 10 ottobre 1843 e rinchiuso nelle carceri locali, Pelloni evase un mese dopo. Ripreso dai carabinieri, il minorenne fu incarcerato a Bagnacavallo e infine a Ferrara, ma con alcuni complici scappò ancora due volte. La prima il 29 gennaio 1844; percorsi pochi tratti di strada, fu riconsegnato alla prigione da un muratore, al quale egli avrebbe poi fatto pagare con la vita quel gesto di civismo. La seconda durante la traduzione ai lavori forzati presso il porto di Ancona, cui era stato condannato dal tribunale di Ferrara. Da quei primi di agosto del 1845 non sarebbe più uscito dalla clandestinità, fino alla morte. Datosi alla macchia, formò una banda che per anni seminò il terrore nel territorio delle Legazioni, commettendo rapine di strada, specie a danno di contadini del Lughese e dell’Imolese, violenze, sequestri di persone, audaci assalti di diligenze. Un salto di scala si ebbe dal 1849, nel pieno della crisi politica dello Stato pontificio: iniziarono allora gli assalti alle città romagnole, di piccole e medie dimensioni (Bagnara, Cotignola, Castel Guelfo, Brisighella, Longiano, Consandolo, Forlimpopoli). A seguito di una soffiata, Pelloni e il compagno Giazzolo la mattina del 23 marzo 1851 furono circondati da una pattuglia di militari mentre si trovavano in un capanno venatorio vicino a Russi. Giazzolo riuscì a fuggire. Pelloni, invece, raggiunto da una fucilata cadde e, mentre tentava di rialzarsi, fu definitivamente abbattuto con un colpo alla nuca.
Ma morto Pelloni, viveva il Passatore. Nonostante la carriera di efferato criminale, la sua memoria non ne fu pregiudicata. Fu trasformata in mito positivo da un gran numero di romanzi da bancarella, dal teatro dei burattini e delle marionette, da racconti e saggi, da canzoni e poemetti, dalle narrazioni orali e infine dal cinema. Intorno al suo nome fiorirono molte leggende, tra le quali Giovanni Pascoli raccolse quella del “Passator cortese”, ovvero di un personaggio generoso protettore dei poveri e riparatore delle ingiustizie sociali.
Morelli conferma che nessuna lettura, per quanto benevola, delle carte d’archivio può fare del Pelloni qualcosa di diverso da un brigante. L’autore cerca quindi di individuare quali possano essere state le origini del mito, a lungo protrattosi, del Passatore. “L’inizio del mito – scrive Morelli – coincide sempre con la morte dell’eroe e lo eleva a simbolo privilegiato e trascendente della propria comunità”. Di fronte al numero preponderante di militari, Pelloni, anziché restare nel capanno e sparare dal coperto, preferì tentare il tutto per tutto: uscì, si espose ai colpi e incontrò “una morte all’altezza della sua fama”.
Morelli sostiene che una chiave di spiegazione è la situazione sociale della Romagna. Siamo nel periodo di agonia del potere temporale della Chiesa, la povertà è diffusa, le imposte sono ritenute intollerabili. E spesso alle richieste di soccorsi le autorità rispondono con cariche di truppa. “Una seconda chiave – scrive l’autore – la chiamerei il ‘ribellismo’ di Stefano Pelloni”. Secondo alcuni biografi la sua prima condanna avvenne per un reato colposo e si basò sulla testimonianza di un sacerdote. In un romanzo del 1929, Bruno Corra pensa a un Pelloni pieno di odio per gli ecclesiastici perché perseguitato dal parroco di Pieve Cesato, don Morini, a causa del suo rifiuto a entrare in seminario. Il mito del Passatore si strutturò quindi con un forte accento anticlericale, grazie anche a un’anonima Rapsodia o storia di Stefano Pelloni, pubblicata nel 1862. Secondo questa trama biografica il Passatore fu indotto al malaffare dalla lussuria di un prete che gli carpì con l’inganno la ragazza di cui era innamorato.
L’ultima chiave alle origini del mito è la romagnolità ai tempi del Passatore. Una romagnolità, scrive Morelli, che comportava “possedere e manifestare in modo eccessivo, straripante e irrefrenabile, il bene e il male, i vizi e le qualità”. E che spesso comportava anche una resistenza tenace alle forze dell’ordine, prima a quelle papaline, poi a quelle nazionali. Una resistenza che assumeva particolari aspetti, combinandosi “con uno spirito individualista che non tollerava organizzazione né gerarchie”.
Nell’ultima parte del capitolo l’autore descrive puntualmente l’invasione di Forlimpopoli del 25 gennaio 1851. La tattica fu analoga a quella dei precedenti assalti alle città. Penetrati entro le mura urbane e messo fuori gioco il presidio della forza pubblica, i briganti presero in ostaggio i cittadini più facoltosi che si trovavano nel teatro e i cui nomi avevano già provveduto a elencare in un foglietto in base alle dritte fornite da gente del posto. I sequestrati vennero quindi usati come scudi per penetrare nelle loro abitazioni, nelle quali i briganti arraffarono di tutto, dalle monete ai preziosi, agli oggetti di valore, ai vestiti. Portarono poi il bottino su di un tavolo addossato al palcoscenico del teatro, facendo dunque sfoggio, pubblicamente, della ricchezza accumulata. Due mesi dopo, un malloppo di 1500 scudi fu rinvenuto, non a caso, sul corpo esanime del Passatore.
GIANNI MORELLI: Stefano Pelloni, detto il Passatore, mito di Romagna, in Farfalle irrequiete, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2022, pp. 21-36