L‘abbazia reale di Altacomba in Savoia. Luogo di sepoltura e mausoleo storico dei membri di Casa Savoia.
LETTERE al Corriere della Sera 18 dicembre 2024
Caro Aldo, in merito alla risposta ai lettori che le hanno scritto sulla visita del re di Spagna, lei giustamente precisa che è una dinastia straniera; non le sembra che anche i Savoia lo siano? Forse mi sbaglio, ma la dinastia nasce al di là delle Alpi e ha sempre mantenuto la lingua francese come lingua ufficiale della casata. Romeo Saoncella
Caro Romeo, I Savoia sono a tutti gli effetti una dinastia italiana da quando Emanuele Filiberto spostò la capitale da questa parte delle Alpi, da Chambéry a Torino. Era il 1563, insomma non proprio l’altro ieri. Emanuele Filiberto, che era un grande comandante militare e un genio politico, aveva intuito che il futuro dello Stato era in Italia. Per secoli i Savoia riuscirono a mantenere la loro indipendenza stando a cavallo delle due grandi potenze del tempo, la Francia e l’impero. Per questo motivo il Piemonte era l’unico Stato italiano ad avere una tradizione militare e un esercito degno di questo nome, anche se ovviamente non poteva affrontare in campo aperto l’esercito imperiale, come generosamente Carlo Alberto tentò di fare nel 1848.
Il francese era la lingua franca della diplomazia europea, quindi un altro genio come Cavour e un re come Vittorio Emanuele II lo conoscevano, ma si esprimevano anche in italiano, oltre che in dialetto piemontese. In italiano il re si rivolse ai parlamentari, dicendo di non essere insensibile al «grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». I deputati, ognuno dei quali aveva vinto il proprio collegio elettorale (per quanto la base dei votanti fosse ridotta), si alzarono in piedi a invocare la guerra all’Austria. A San Martino i piemontesi persero duemila uomini in un giorno, come se oggi — fatte le proporzioni — cadessero 60 mila soldati italiani, eppure volevano continuare la guerra. Cavour aveva mandato in Crimea 15 mila uomini (come se adesso l’Italia armasse una spedizione da 450 mila soldati), in una guerra non nostra ma che nei suoi piani lo sarebbe potuto diventare. I Savoia insomma non hanno avuto solo demeriti, e il popolo piemontese — supportato da volontari di ogni parte della penisola, Napoli compresa — ha dato il sangue per fare l’Italia.
E sa cosa mi colpisce di più, gentile signor Romeo? Che, mentre moltissimi napoletani credono alla panzana del Regno delle Due Sicilie grande potenza mondiale in cui si viveva liberi ricchi e felici, a pochi piemontesi importa qualcosa di quel che hanno fatto i loro antenati. E non lo scrivo per riattizzare il contrasto tra Nord e Sud, anzi pienamente consapevole dell’enorme contributo di cultura, di bellezza e di civiltà che Napoli ha dato non solo all’Italia ma al mondo, da Vico a Croce, da Giordano Bruno a Vincenzo Cuoco, da Luca Giordano a Eduardo De Filippo, dal cinema alla musica. Però la riscoperta dei Borbone, «festa farina e forca», per cortesia no. I Borbone non sono Napoli, e Napoli non è i Borbone. Aldo Cazzullo
VITTORIANO. Monumento a Vittorio Emanuele II Giuseppe Sacconi 1911 Roma