Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 10 gennaio 2016
Quanto riportato nella sua risposta a Giuseppe Vozza (Corriere, 3 gennaio) sulla guerra al brigantaggio è in una certa misura condivisibile. Non si possono tuttavia ignorare altri aspetti che comunque contrassegnarono i primi anni del nuovo regno e riguardarono principalmente i soldati borbonici trasferiti al Nord dal settembre 1860 in poi. Nel libro di A. Barbero I prigionieri dei Savoia sono documentate alcune espressioni usate da La Marmora: «Il vecchio soldato napolitano era una canaglia da cui era impossibile trarre partito; che corromperebbe i nostri soldati se si mettesse in mezzo a loro»; da Cavour: «Non ammorbiamo il nostro Esercito con quella peste. Rimandiamo a casa quell’accozzaglia di gente piena di vizi fisici e morali»; da Minghetti: «Il sentimento di italianità è raro e frivolo nel Mezzogiorno d’Italia. I soldati che vennero prigionieri a Genova: immondi del corpo quanto corrotti dell’animo»; dal Principe di Carignano: «I coscritti napoletani andavano allontanati da casa per cambiare la loro tendenza alla pigrizia, indisciplina e immoralità». Non ci si meraviglia poi se i governi dei primi decenni dopo l’Unità d’Italia, nell’opera di ammodernamento infrastrutturale del Paese, si preoccuparono di aprire quattro importanti trafori alpini e potenziare la rete ferroviaria nelle regioni settentrionali, ma, parafrasando lo studioso francese Marc Monnier, negligentemente non si davano cura delle montagne (rifugio dei briganti), né vi aprivano gallerie, né vi tagliavano strade, pur essendoci interi distretti non ancora percorsi neppure da una carrozza.
Gaetano Perillo
Tra le parole che meritano di essere ricordate vi sono anche quelle di Cavour sul letto di morte. Dopo aver ricevuto la visita del re, disse «L’Italia del Nord è fatta, non ci sono più né lombardi, né piemontesi, né toscani, né romagnoli; siamo tutti italiani; ma ci sono ancora i napoletani. Oh, c’è molta corruzione nel loro Paese. Non è colpa loro, poveretti, sono stati così mal governati. È colpa di quel furfante di Ferdinando. No, no, un governo così corruttore non può essere restaurato, la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il Paese, educare l’infanzia e la gioventù, creare asili, collegi militari; ma non è certo ingiuriando i napoletani che riusciremo a cambiarli. Mi chiedono impieghi, decorazioni, carriera; bisogna che lavorino, che siano onesti; e allora gli darò decorazioni e carriera; ma soprattutto niente elargizioni, l’impiegato non deve neppure essere sospettato. E niente stati d’assedio (…) tutti sanno governare con gli stati d’assedio. Lì governerò con la libertà e mostrerò ciò che dieci anni di libertà possono fare di queste belle regioni. Fra vent’anni saranno le province più ricche d’Italia. No, basta con gli stati d’assedio, vi raccomando». Il giudizio sulle malefatte del governo borbonico non era soltanto quello della classe dirigente risorgimentale. Poco più di dieci anni prima, un uomo politico britannico, William Gladstone, aveva visitato Napoli, si era interessato al caso di un funzionario italiano dell’ambasciata di Gran Bretagna, incarcerato per le sue opinioni politiche, e aveva ottenuto il permesso di visitare le prigioni della città. Il risultato di quella visita furono due lettere indirizzate al ministro degli Esteri del Regno Unito e un pamphlet in cui Gladstone fece una devastante descrizione della giustizia borbonica e delle inumane condizioni riservate ai detenuti. Vi fu una risposta ufficiale del governo napoletano e una replica di Gladstone in cui l’uomo politico disse che il regime borbonico era «la negazione di Dio eretta a sistema governativo». Quanto agli investimenti per la costruzione di infrastrutture dopo l’Unità, caro Perillo, è certamente vero che furono indirizzati verso quelle regioni dove potevano dare buoni risultati in tempi relativamente brevi. Ma lei ha dimenticato la Cassa del Mezzogiorno da cui il Sud avrebbe potuto e dovuto trarre maggiori vantaggi di quanto sia effettivamente accaduto.
Sergio Romano