Giovani Duprè Giotto Piazzale degli Uffizi Firenze
«Ho viaggiato molto e conosciuto gente d’ogni ordine e grado… M’han detto che ero brutto per via della mia poca altezza, del mio ventre sporto e della mia faccia tonda… ma ho avuto un bene prezioso, la mia Ciutina che tanto m’ha voluto bene e alla quale tanto voglio ancora bene anch’io». Muore parlando così Giotto di Bondone nel giorno dell’Epifania del 1336 o 1337 (secondo il calendario fiorentino) nelle ultime pagine del libro che gli ha dedicato Alessandro Masi, L’artista dell’anima. Giotto e il suo mondo (Neri Pozza).
Masi, milanese, segretario della Società Dante Alighieri, deve essersi tra le altre cose anche divertito nel mettere insieme le tessere della vita del pittore che, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, ha cambiato la storia dell’arte, italiana e mondiale. Perché il libro, che è ricco di documentazioni, si avvale di una ricca bibliografia e inserisce il nostro in un contesto storico e culturale largo — e in particolare tra quella terna di ragazzi degli anni Sessanta che comprende anche Dante e San Francesco (quest’ultimo muore nel 1226 ma la sua compiuta celebrazione nella Basilica di Assisi è più tarda) — ebbene questo libro è anche ricco di ironia, motteggi, incontri, dialoghi, battibecchi, gustose mense imbandite di ogni ben di Dio. Perché, si sappia, quel ventre sporto di Giotto non era frutto del caso, ma della predisposizione dell’artista a godere dei piaceri della tavola, complice la moglie, quella Ciutina che gli diede 8 figli e molti abbacchi, minestre, arrosti, verdure. Giotto c’è in questo libro a tutto tondo. C’è il pittore, c’è l’oculato amministratore dei suoi beni (nato povero non fece mai mistero della sua attenzione ai beni terreni pur amando sopra ogni cosa il poverello d’Assisi), c’è l’inventore della nuova pittura che si discosta dalla ieraticità bizantina per accogliere il vero e la prospettiva, ci sono i suoi viaggi e la sua amicizia con Dante, a volte oscurata da qualche incomprensione, e che pare considerasse uno sbruffone il maestro di Giotto, il grande Cimabue.
Un libro agile, 187 pagine che si leggono tutte d’un fiato e che, seppur segua un andamento diacronico — dalla nascita a Vicchio alla morte a Firenze — a volte, vuoi nella memoria dei protagonisti vuoi nella reiterazione di alcuni momenti particolarmente significativi, fa dei salti temporali. Tutti pensati per focalizzare quello che è agli occhi di Masi il nocciolo della questione che lui spiega sin dalla prefazione: «In questo libro, oltre che di Giotto narro anche di Francesco e Dante, come portatori di un nuovo messaggio della parola, tutti e tre raffigurati come vertici di un triangolo equilatero che ancora oggi rimane fondamentale nel progresso dell’umana specie». Ora proviamo a immaginare questo triangolo: ai vertici ci sono i nostri tre grandi rivoluzionari, quelli che ci portano dritti dritti dentro l’Umanesimo, dentro i loro contenuti, il dolce stil novo di Dante, la pittura del vero di Giotto, la dottrina della Chiesa povera di Francesco. Un secolo che porta con sé una rivoluzione. Giotto, ci ricorda Masi, nasce da una famiglia umili origini. Il padre era un «lavoratore di terra e naturale persona» che all’occorrenza era anche un buon fabbro, ma quel buonannulla di suo figlio stava sempre con fogli in mano a disegnare. Quello che vedeva, in campagna, soprattutto pecore che «copiava dal vero» andando al pascolo.
Come fu e come non fu — sulla questione ci sono due versioni entrambe riportate — tutto questo disegnare lo portò a bottega da Cimabue. Artista eccelso, certamente, in vecchiaia pare anche piuttosto invidioso della bravura del suo allievo più talentuoso. È qui, nella bottega di via del Cocomero che Giotto impara, osserva, annota tutto. È con Cimabue che acquisisce gli strumenti con cui come scrive Vasari: «sbandì affatto quella goffa maniera greca e risuscitò la moderna e buona arte della pittura introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive». È grazie a Cimabue che arriva ad affrescare la Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi potendo mettere in pratica il suo pensiero e cioè che «in pittura, come nella vita, aveva ragione Francesco, occorreva far scendere tutti i santi tra gli uomini, piantare sulla terra l’intero empireo».
Cappella Scrovegni Padova
Perché «se si voleva rinnovare la pittura bisognava dar ragione al poverello di Assisi e spogliarsi da tutto quel sofisticato complesso di norme iconiche». Il risultato sta lì sotto gli occhi di tutti, ma sta anche nel Cristo di Santa Maria Novella, nel cantiere della Cappella degli Scrovegni a Padova dove il pittore per qualche anno, dal 1303 al 1305, si trasferì con moglie e figli, e in quello di Santa Chiara a Napoli, e poi a Rimini con l’altro Crocifisso del Tempio Malatestiano e nelle Cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce. Sta nella sua arte, insomma a cui, non tralasciando mai il gusto per il motteggio — pare che fosse un abile conversatore capace di tenere testa a vescovi e re — dedicò tutta la vita. Pare che questa fu la ragione, per dedicarsi all’arte appunto, che declinò l’invito di Dante di aggregarsi con lui a quel gruppo di artisti che avrebbero dovuto creare una confraternita in nome di quello stile nove che loda «sophia, la sapienza, la domina e ancella del signore» i cosiddetti Fedeli dell’amore. Ciò non gli impedì di volerlo a cena, quando a Padova lui stava lì con moglie e figli a lavorare alla cappella voluta da Enrico degli Scrovegni, e Dante era già in esilio e di ritrarlo al Bargello. Terzo vertice del triangolo equilatero.
Ivana Zuliani Corriere Fiorentino 23 marzo 2022
Italo Vagnetti Giotto Vicchio 1897