Lettere a Sergio Romano Corriere della Sera 5 maggio
Giuseppe Garibaldi, come è ben noto, pur essendosi egli stesso professatosi sempre un fautore della Repubblica, di ritorno dal sud America nel 1848, non esitò a offrire il suo braccio a Carlo Alberto e successivamente il suo pensiero e la sua azione politica e militare le sintetizzò nel motto: «Italia e Vittorio Emanuele» (cosa che pagò molto amaramente, vedi ad esempio i fatti di Aspromonte nel 1862 e di Mentana nel 1867). Ora le chiedo: 1) Sarebbe stata allora in quei tempi realmente e concretamente fattibile un’opzione repubblicana della costruzione del processo unitario nazionale, o la via della monarchia sotto i Savoia fu veramente l’unica strada veramente percorribile? 2) Secondo alcuni storici contemporanei, Garibaldi nel 1860, nel consegnare e lasciare ai Savoia il Regno delle due Sicilie assieme ad un’armata di migliaia di volontari a lui entusiasticamente accodatisi, imbarcandosi per Caprera con un rotolo di baccalà e un sacco di lenticchie, commise in definitiva un grave errore politico. È d’accordo su questa tesi?
Giorgio Cordasco
Caro Cordasco, quando sbarcò a Nizza, il 21 giugno 1848, dopo la lunga traversata dell’Atlantico da Montevideo al Mediterraneo, Garibaldi aveva già deciso quale sarebbe stata la sua scelta nei giorni seguenti. Avrebbe messo la sua spada e la sua formidabile reputazione al servizio del re di Sardegna, avrebbe combattuto contro gli austriaci a fianco dei reggimenti reali. Era e sarebbe rimasto repubblicano, ma sapeva che fra gli eserciti della penisola quello sardo- piemontese era il solo che potesse tenere testa agli austriaci. Dopo una breve sosta a Genova, proseguì per Roverbella, nella provincia di Mantova, dove Carlo Alberto si era installato con il suo quartier generale, e chiese udienza. La decisione dovette costargli fatica. L’uomo da cui sarebbe stato ricevuto lo aveva condannato a morte nel 1834 e gli amici di Mazzini non avrebbero mai smesso di rimproverargli quel «tradimento». L’accoglienza, comunque, fu molto fredda. Nelle sue memorie Garibaldi scrisse: «Lo vidi, conobbi diffidenza nell’accogliermi, e deplorai nelle titubanze e nelle incertezze di quell’uomo il destino male affidato della nostra povera patria ». Carlo Alberto gli fece subito capire che i volontari sarebbero stati accettati soltanto se inquadrati nelle formazioni regolari del Regio esercito e lo invitò, burocraticamente, a prendere contatto con il ministro della Guerra. Aveva cancellato con un provvedimento di grazia i reati del 1834, ma non intendeva conferirgli il grado di generale o autorizzarlo a operare come corsaro nelle acque dell’Adriatico contro le navi austriache. Alla fine Garibaldi dovette accontentarsi di un incarico del governo provvisorio di Milano e trasferirsi nella zona di Bergamo con una formazione raccogliticcia di uomini male armati. Nella sua grande opera su Garibaldi e la difesa della Repubblica romana, uno storico inglese, George Macalauy Trevelyan, scrisse che le cose sarebbero andate molto diversamente se al quartier generale di Roverbella, il 5 luglio 1848, vi fosse stato, al posto di Carlo Alberto, il giovane principe destinato a salire sul trono un anno dopo. Fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II vi fu effettivamente una corrente di personale simpatia e reciproca ammirazione. Ne fece le spese Cavour a cui il generale rimproverò la cessione di Nizza alla Francia e il frettoloso congedo delle milizie garibaldine dopo la conquista del sud. Ma a questo servono per l’appunto i Primi ministri nelle monarchie costituzionali: a prendere sulla propria persona le responsabilità e gli errori dei re.