Caro Direttore, come accenni nel tuo editoriale, la parata del 2 giugno ha avuto alterne fortune nel dopoguerra che coincide con la nostra generazione. Io non l’ho mai vissuta a Roma, ma ho perfetta memoria del fatto che mio padre, uomo di sinistra e figlio di antifascista perseguitato, richiamato per una guerra che non condivideva fino al ferimento che lo rimandò a casa, mi portava a vedere la sfilata di Livorno, ben più ridotta, e canticchiava, insegnandomi canzoni come l’Inno del Piave che io ancora tengo tra le cose buone della mia cultura.
C’è stata forte difficoltà, attraverso i decenni, a separare l’esercito dell’Italia repubblicana da una certa idea e ciò per colpa sia di chi ha insistito a vedervi un baluardo contro la sinistra la giustizia sociale, sia di chi ha proseguito a vedervi un potenziale di destra. Non c’è dubbio che, quanto agli individui, vi fossero posizioni di quel tipo e non mancano neppure in queste ore esempi di personaggi dalla mentalità autoritaria e, nello stesso tempo, populista e antitetica allo Stato. Ma mi pare si possa dire che l’esercito ha mostrato di essere nella sua generalità un’istituzione della Repubblica democratica. La storia che fai per sommi capi comprende tanti capitoli. Tra questi, certamente, la vicenda del 1898 non ha esaltato l’immagine popolare dell’esercito. Chi comandò di cannoneggiare il convento milanese interpretava in modo zelante e feroce un disegno autoritario che stava al di sopra di lui; chi eseguì gli ordini obbediva ad un apparato molto rigoroso e qualche volta cattivo, provvisto di mezzi che giungevano alla pena di morte, tanto più essendo in vigore il codice militare anche per i civili. Meno di venti anni prima, il caporale Pietro Barsanti, accusato di non aver contrastato l’assalto repubblicano a una caserma, forse di averlo agevolato, aveva subito la fucilazione.
Erano anche quelle le regole dell’esercito professionale, rispetto al quale l’esercito di popolo costituì per molti l’alternativa ideale e qualche volta concreta come nel caso dell’esercito garibaldino. Il Risorgimento è debitore di entrambi i modelli, attivi, del resto entrambi a Curtatone e Montanara, come nella seconda guerra di indipendenza. Egualmente la Resistenza ha fatto leva su entrambi i modelli, l’uno rappresentato dai primi combattenti insieme ai cittadini – carabinieri e carristi – a Porta San Paolo, l’8 settembre, dai militari passati a comandare diverse bande partigiane, indipendentemente dall’afferenza partitica, dai prigionieri in Germania che si rifiutarono di arruolarsi tra i nazi-fascisti; l’altro dai volontari repubblicani in Spagna, poi dai resistenti civili e da coloro che contribuirono alla formazione dei Comitati di liberazione nazionale e di loro corpi combattenti.
Quella data, il 2 giugno, concatenata al 25 aprile dalla storia del nostro paese rinato dopo l’8 settembre perché tornato a sperare nella libertà, significa tutto questo e, al netto di qualche sciocco sguardo irresponsabilmente volto all’indietro, significa il grande passaggio dalla Monarchia, altro fenomeno complesso, non privo di meriti risorgimentali, ma affondato dagli errori degli ultimi decenni, alla Repubblica, espressione di un work in progress, di un lavoro da compiere nella libertà, fuori dai lugubri e deprimenti colori della dittatura. Per questo è bello festeggiarlo, sia osservando il bel volo delle frecce, sia ripensando al faticoso cammino compiuto e a quello da compiere. Grazie per avercelo ricordato nel momento in cui solo la stoltezza potrebbe guastare il clima di compattezza che il comune pericolo ha in qualche modo rafforzato.
Fabio Bertini