Dalla rubrica lettere a Sergio Romano del Corriere della Sera di Giovedì 8 dicembre 2011.
Ho due figli che frequentano il liceo; e riconosco che studiano con passione. Eppure, mi accorgo che non sanno nulla della storia dell’800, e loro stessi mi rispondono che questo periodo non è quasi più contemplato negli odierni programmi scolastici. Si passa, cioè dalle vicende, e conseguenze, della rivoluzione francese al XX secolo, con la lotta degli imperialismi, il colonialismo, le dittature fascista e nazista. Lei che è un ottimo conoscitore e studioso di storia, che cosa mi consiglia che potrei suggerire di leggere ai miei due ragazzi, perché si facciano almeno qualche idea di quanto è successo nel XIX secolo, almeno qui al settentrione?
Luigi Pollari
Caro Pollari, grazie alle celebrazioni del centocinquantenario abbiamo almeno un centinaio di nuovi libri sul Risorgimento apparsi negli ultimi mesi. Il catalogo è molto vario: saggi accademici, storie aneddotiche, biografie, carteggi, qualche versione romanzata delle guerre d’indipendenza e una messe di letteratura revisionista pervasa di nostalgie borboniche e asburgiche. Il libro che ho scelto per la lettura dei suoi figli è per molti aspetti revisionista. Ma è tornato in libreria, in una edizione pubblicata da Mursia con una bella presentazione di Arturo Colombo, a più di cento anni dalla sua prima edizione e porta la firma di uno dei maggiori intellettuali italiani della prima metà del Novecento: Gaetano Salvemini. Il titolo— «I partiti politici milanesi nel secolo XIX» — non rispecchia interamente la natura del lavoro. Salvemini non aveva ancora trent’anni, insegnava storia in un liceo di Lodi, era (o credeva di essere) socialista e collaborava alla Critica sociale di Filippo Turati. È probabile che il suo obiettivo iniziale fosse quello di raccontare la storia dei movimenti politici milanesi fra la caduta del Regno napoleonico di Eugenio Beauharnais e la nascita del Regno sabaudo. Ma l’orizzonte si allarga durante la scrittura del saggio e lascia intravedere un giudizio generale sull’intero movimento unitario. I partiti che dominano la scena a Milano e altrove sono tre: l’aristocrazia fondiaria moderata, la borghesia indipendente, le classi operaie mazziniane. Il primo non è ostile all’Austria, ma si affida ai Savoia non appena ha l’impressione che soltanto Torino possa salvare Milano e il resto dell’Italia dai rischi di una rivoluzione incombente. Il secondo non vuole essere governato da un’Austria gretta e miope che protegge l’industria boema a danno di quella lombarda e soffoca il commercio con la sua politica fiscale. Il terzo attende la rivoluzione nazionale «con qualche prima timida sfumatura di socialismo » ed è lo spauracchio che consente ai Savoia di conquistare il consenso interessato di nobili e borghesi. Anziché raccontare il Risorgimento come un entusiasmante moto popolare e liberale, Salvemini preferisce mettere l’accento sui calcoli politici e le convenienze economiche dei maggiori ceti sociali. Qualche tempo dopo la pubblicazione di questo primo saggio, l’autore decise di completarlo con uno studio sulla brutale repressione dei moti popolari di Milano del 1898 che riappare ora nel libro curato da Colombo. Ma piuttosto che soffermarsi sull’episodio milanese, Salvemini cerca di collegare lo stato d’assedio, decretato dal generale Bava Beccaris, alle tendenze reazionarie che sarebbero presenti sin dall’inizio nel Regno sabaudo. Non sorprende che un anno prima Salvemini avesse esortato Turati a prendere la guida di una grande insurrezione popolare in tutto il territorio del Regno. Ancora una osservazione, caro Pollari. Nel suggerire la lettura del libro ai suoi figli non dimentichi di ricordare che Salvemini, come scrive Arturo Colombo, lasciò il socialismo qualche anno dopo, ma rimase fieramente repubblicano. Fu un uomo indipendente, coraggioso, talora passionale e capace di furenti campagne polemiche, come quella contro Giovanni Giolitti che definì, in un libello del 1910, «ministro della malavita ». Ma era anche capace di correggere i suoi giudizi e di scrivere, parecchi anni dopo, che quella dell’era giolittiana era pur sempre una «democrazia in cammino»