GIOVANNI BELARDELLI Corriere della Sera 31 maggio
Per una singolare coincidenza, il Mulino ha dato alle stampe due corposi volumi sui presidenti della Repubblica (in uscita il 21 giugno) proprio quando la crisi politica seguita alle elezioni del 4 marzo ha riportato all’attenzione l’importanza che la prima carica dello Stato riveste nel nostro ordinamento.
Con una trentina di autori e oltre 1.200 pagine, l’opera è destinata a rappresentare un riferimento imprescindibile. Concorrono a ciò l’autorevolezza dei curatori: Sabino Cassese, Alberto Melloni e Giuseppe Galasso (il cui saggio introduttivo si legge con una certa emozione, essendo l’ultima cosa da lui scritta prima della scomparsa nello scorso febbraio); ma soprattutto vi concorre l’ampiezza degli argomenti presi in esame: dalle biografie di ciascuno degli inquilini del Quirinale alla struttura della presidenza, dal linguaggio utilizzato dai vari capi dello Stato alla loro presenza sulla scena internazionale.
Come più volte è stato ricordato, l’Assemblea costituente, volendo marcare una netta cesura rispetto a ogni idea di «uomo forte», aveva finito col fare del capo dello Stato una figura non ben definita, dalle attribuzioni vaghe ed elastiche. Di qui una presidenza della Repubblica dai poteri «a fisarmonica», secondo un’immagine spesso utilizzata, che si estendono o riducono in relazione alla forza o debolezza del governo e delle forze politiche. In una situazione di crisi – ha notato Leopoldo Elia – si ampliano quei poteri presidenziali «di indirizzo e di impulso che nei periodi normali rimarrebbero silenti».
Proprio la storia degli ultimi decenni sembra indicare però che i poteri del presidente, soprattutto quelli meno evidenti e formali, possono crescere anche in relazione a un altro fattore: la personalità e le inclinazioni più o meno «interventiste» del capo dello Stato.
Nella Repubblica federale tedesca sia Konrad Adenauer sia Ludwig Erhard rifiutarono la candidatura alla presidenza della Repubblica, nota Sabino Cassese. Nulla di simile è mai accaduto in Italia, dove anzi molti leader politici hanno aspirato al Quirinale, così da confermare come i poteri del nostro capo dello Stato siano superiori a quelli del suo omologo tedesco. Secondo il giudice costituzionale (ed ex azionista) Mario Bracci, che lo scriveva nel 1958 all’allora presidente Giovanni Gronchi, la lettera e lo spirito della Costituzione renderebbero addirittura possibile muoversi verso un «tipo originale di Repubblica presidenziale». Nessun presidente della Repubblica ha mai esplicitamente battuto questa via; ma proprio dai due corposi volumi appena usciti si ricava come, sia pure con eccezioni e battute d’arresto, è nella direzione di un semipresidenzialismo di fatto, come a volte lo si è definito, che si è mossa la Costituzione materiale del Paese.
Si pensi allo stesso Luigi Einaudi, che nella prima parte del mandato era sembrato voler incarnare il modello del presidente-notaio e aveva poi assunto una fisionomia alquanto diversa: nel 1953, senza procedere a consultazioni, diede l’incarico a Giuseppe Pella, che formò il primo di quelli che sarebbero poi stati definiti «governi del presidente».
Il suo successore Giovanni Gronchi fu un capo dello Stato decisamente interventista, sia in politica interna che estera. Fu lui il primo a cercare un dialogo diretto con i cittadini, che cozzava però – nota nel suo saggio Michele Cortelazzo – contro le barriere linguistiche ancora forti nel Paese. E cozzava pure con la tradizione di un’oratoria spesso involuta: il discorso di fine anno del 1961 conteneva una frase di ben 118 parole. Forme e sostanza della comunicazione presidenziale sarebbero cambiate definitivamente con Sandro Pertini, in particolare a partire dal discorso da lui pronunciato alla televisione il 26 novembre 1980, tre giorni dopo il terremoto dell’Irpinia, nel quale criticava severamente il governo per la lentezza dei soccorsi.
Al presidente della Repubblica spettano poteri fondamentali come quello di sciogliere le Camere o assegnare l’incarico di formare un nuovo governo (potere, per inciso, particolarmente significativo in un Paese che in settant’anni ha avuto 64 governi). Anche questi poteri hanno avuto un’evoluzione nel tempo: Pertini, ad esempio, fu il primo a non seguire la prassi di assegnare l’incarico di formare il governo a un esponente del partito di maggioranza relativa. Ma ciò che è soprattutto significativo è l’espansione che ha interessato i poteri informali del presidente, analizzati nel volume da Marina Giannetto (oltre che dalle varie ricostruzioni biografiche dei singoli capi dello Stato); si tratta essenzialmente di poteri interdittivi, che gli consentono di «interporsi nella produzione legislativa». In concreto, è il presidente che, come stabilisce la Costituzione, autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa, promulga le leggi, emana decreti legge. In questi casi al presidente spetta una facoltà di diniego della propria firma, ma dunque anche la possibilità di intervenire in anticipo persuadendo il governo a mutare una certa legge o un certo decreto per evitare che egli si trovi poi a esercitare il proprio potere interdittivo.
Il capo dello Stato finisce così per condividere nei fatti una porzione del potere legislativo ed esecutivo.
Direi che proprio l’aver illustrato questo con molta chiarezza, cioè il posto che il capo dello Stato occupa nella Costituzione scritta ma anche in quella materiale, rappresenta uno dei pregi maggiori di quest’opera.