Ugo Tramballi Sole 24 Ore 19 maggio
«I primi israeliani spesso non erano felici della loro vita privata ma credevano nel loro Paese e nel loro futuro. Avevano un sogno. Questa, forse, è la differenza più profonda fra gli israeliani di allora e quelli di oggi», scrive lo storico Tom Segev in 1949. The First Israelis (Free Press, 1998).
Cosa significhi essere un popolo felice è difficile da definire: forse è solo un’ambizione collettiva irrealizzabile nello stesso momento, per l’intera collettività di ogni Paese della Terra.
Ma se c’è un luogo della geopolitica oltre che dell’anima, dove ininterrottamente da 70 anni descrivere la felicità è più complicato, quello è Israele. Forse avevano più certezze gli 806mila ebrei di Palestina, molti dei quali scampati alla Shoah, che alle quattro del pomeriggio del 14 maggio 1948 (il sesto giorno di Iyar del 5708) ascoltarono alla radio la dichiarazione d’indipendenza. Loro più dei 6 milioni e 484mila ebrei d’Israele di oggi.
Alla Dizengoff House, il Museo di Tel Aviv in Rothschild Boulevard, David Ben Gurion annunciava «la fondazione di uno Stato Ebraico in Eretz Israel, che sarà conosciuto come Stato d’Israele». Oggi Rothschild è uno dei viali più smart della città: gli alberi sono ombrosi, circolano bici elettriche, si mangia il miglior sushi del mondo fuori dal Giappone e un appartamento costa al metro quadro quanto a Tribeca, New York. È difficile immaginare che a una ventina di chilometri in linea d’aria continui il conflitto con i palestinesi.
Allora Rothschild era lo specchio del socialismo spartano dello Stato ebraico nascente. Ed era in prima linea, a due passi dalla cittadina araba di Yaffa. Mentre Ben Gurion parlava alla radio, gli uomini erano già al fronte: un fronte in ogni wadi, piana e montagna del nuovo Paese, agli angoli delle strade di ogni città divisa in quartieri ebraici e arabi. Agli angoli di Rothschild si scavavano trincee e rifugi anti aerei.
Alle Nazioni Unite non era stato facile il lavoro diplomatico per arrivare a questo, e alle frontiere così insicure presto avrebbero premuto gli eserciti dei Paesi arabi. Eppure non è sbagliato affermare che gli israeliani di allora sognassero più di chi oggi vive in un Paese protetto dalle forze armate tecnologicamente inferiori solo alle americane; in un’economia fra le più avanzate che non ha smesso di crescere anche in mezzo alla crisi finanziaria globale, come in nessun altro Paese occidentale. Sentirsi in tutto e per tutto occidentali ma essere geograficamente in Medio Oriente, vivere nel posto giusto e contemporaneamente in quello sbagliato, è forse l’essenza del problema d’Israele.
Le origini dei coloni ebrei nati o andati in Palestina e la determinazione del loro insediarsi hanno una forza epica. Ma qualcosa non ha funzionato se sette decenni più tardi, celebrando un successo, lo Stato non ha ancora frontiere certe, riconosciute e sicure. Israele ha istituzioni, leggi, università, premi Nobel, autostrade, banche, fisco, startup e sindacati. Ma resta come lo Stato degli arabi palestinesi, che di tutto questo non ha nulla: un sogno incompleto. A causa della geopolitica di oggi che sta cambiando le alleanze regionali, e delle vittorie militari «il conflitto arabo-israeliano è di fatto terminato». Ma queste vicende «non hanno permesso di regolare quello con i palestinesi», sostiene il giovane storico David Elkaim (Histoire des guerres d’Israel, éditions Tallandier, Paris, 2018).
Stendere la dichiarazione d’indipendenza del 1948 non era stato un compito facile. Come definire i confini del nuovo Stato: accontentarsi di quello che il piano di spartizione delle Nazioni Unite aveva fissato o mettere già nero su bianco le future ambizioni territoriali? E Stato ebraico era una definizione politica o anche religiosa? Doveva prevalere l’essenza laica e socialista del “nuovo ebreo” o la fede antica della quale era stata fatta rinascere la lingua, tornata a essere l’idioma ufficiale in pieno XX secolo? Accanto ai fondatori, i coloni, i kibutznikim che dovevano conquistare, coltivare e difendere la terra («Siamo una generazione di coloni, eppure senza un’arma da fuoco non riusciremo a piantare un albero», diceva Moshe Dayan), inaspettatamente arrivarono dai ghetti europei migliaia di ultra ortodossi e di haredim, i timorati di Dio. Loro non condividevano l’impresa sionista. Per evitare uno scontro fra religione e Stato, si evitò di scrivere una Costituzione.
Forse è per questo che 70 anni più tardi l’ultima generazione d’israeliani fatica a sognare quanto i first Israelis. Frontiere e fede erano le grandi incertezze nella stesura dell’indipendenza, frontiere e fede sono ancora i due grandi nodi irrisolti alla fine del secondo decennio del XXI secolo. «Il movimento giovanile e le sue camicie blu, il kibbutz, le gite e l’archeologia. E poi, più tardi: la partecipazione alla politica, le relazioni arabo-ebraiche, il dialogo israelo-palestinese. Lo scontro tra falchi e colombe. Ho lasciato fuori qualcosa?», ha scritto l’intellettuale e politologo Meron Benvenisti, fotografando settant’anni di storia d’Israele.
Sotto la pressione dei conflitti Israele ha conosciuto nazionalismo e nativismo molto prima di europei e americani. Da oltre una trentina d’anni le destre e il movimento dei coloni hanno connesso ciò che il socialismo dei fondatori aveva volutamente tenuto separati: la fede e il nazionalismo. Il grande tema di oggi è come definire «lo Stato-nazione ebraico» di fronte a una minoranza araba del 20% e ai 2,9 milioni di palestinesi della Cisgiordania occupata. Il problema esiste da sempre ma era un tabù: nessuno sapeva come risolvere il dilemma fra avere tutta la terra per gli ebrei e restare uno Stato democratico. La demografia dice che in meno di mezzo secolo fra il Mediterraneo e il fiume Giordano, i palestinesi saranno di più. «C’è la possibilità di mantenere una maggioranza ebraica anche al prezzo di violare i diritti» e la Corte Suprema deve trovare «lo strumento costituzionale» per farlo nella legalità, aveva detto qualche mese fa alla Knesset la giovane ministra della Giustizia Ayelet Shaked, una pasionaria di Eretz Israel, non del suo carattere democratico.
È difficile che Israele viva per altri 70 anni senza risolvere questo dilemma.