Tanto più le classi dirigenti esibiscono i propri successi, tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori. E viceversa
Paolo Mieli Corriere della Sera 25 gennaio
Venerdì 29 gennaio 2016 Matteo Renzi incontrerà Angela Merkel e verrà il momento di fare il punto sullo stato delle relazioni tra Italia, Germania (ed Europa). Già si può immaginare il modo in cui andrà a concludersi: come sempre accade dopo le tempeste, si prenderà atto che i rapporti tra i due Stati sono «eccellenti», che qualche problema rimasto sul tappeto è «in via di soluzione», talché i giornali del giorno seguente racconteranno di «successo» del summit. Sarà più utile, perciò, soffermarci a osservare qualcosa di apparentemente laterale, cioè posture e toni che caratterizzeranno quella riunione. Quelli della Merkel possiamo dire di conoscerli in anticipo: flessibili, quantomeno in apparenza, e garbati. Più imprevedibili saranno quelli del nostro presidente del Consiglio che negli ultimi tempi si è esibito in un crescendo di veemenza laddove ha ribadito in più occasioni che il nostro Paese non si presenta più «con il cappello in mano»,che quando è in campo l’Italia (cioè lui) «non ce n’è per nessuno», che pretendiamo «ciò che ci spetta» e cose simili.
Sono toni non nuovi nella storia d’Italia, che hanno precedenti nelle fasi più instabili del nostro passato e che quasi mai hanno prodotto esiti all’altezza degli enunciati. Dapprincipio, dopo il 1861, le nostre classi dirigenti furono più sorvegliate nel coniugare la retorica risorgimentale con i propositi di affermazione e di grandezza. Anche perché le brucianti sconfitte di Lissa e Custoza nella terza guerra di indipendenza (1866) inducevano ad una qualche prudenza. Alla fine degli anni Settanta, mentre uscivano di scena i grandi che avevano guidato la stagione in cui si era fatta l’unità d’Italia, gli stili e il piglio cambiarono. Mentre il Paese si avviava alla stagione del «trasformismo», forse per compensazione alle difficoltà politiche interne, le voci cominciarono ad alzarsi. Il povero ministro degli Esteri Luigi Corti – un ex diplomatico con ottime credenziali – reo di aver enunciato al congresso di Berlino (1878) la saggia politica delle «mani nette», cioè della non partecipazione alla corsa coloniale, fu sommerso di contumelie. Insulti che presto trovarono qualcuno pronto ad «interpretarli»: il console italiano a Tunisi, Licurgo Macciò, mobilitò armatori e imprenditori per conquistare posizioni nella terra del Bey. Risultato? La Francia si allarmò e nel 1881 con un colpo di mano impose il suo protettorato sulla Tunisia. Le voci in Italia contro la politica delle «mani nette» (presentate adesso come «mani vuote») si alzarono al massimo, ne fu travolto il governo guidato dall’ultimo dei fratelli Cairoli, Benedetto, e da quel momento i nostri politici si dovettero cimentare con le idee di grandezza messe in campo dai più intransigenti, da intellettuali e soprattutto da poeti del calibro di Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli (in contrasto con la sua cifra poetica), fino agli eccessi di Gabriele D’Annunzio.
Mai più un’Italia «con il cappello in mano». Francesco Crispi, deciso a farsi valere, tentò l’avventura africana e ne fu travolto con la sconvolgente sconfitta di Adua (1896). A Giovanni Giolitti andò meglio con la guerra di Libia (1911) ma solo perché nell’immediato furono in pochi a misurare il rapporto tra costi (altissimi) e benefici (pressoché inesistenti) di quell’impresa. Poi quando lo stesso Giolitti si mostrò più esitante all’idea di far entrare l’Italia nella Prima guerra mondiale, mancò poco che venisse linciato. Inutile aggiungere qualcosa sull’uso che di quella retorica avrebbe fatto Benito Mussolini. Nel nome dell’orgoglio italico il nostro Paese prese parte ai due conflitti che nel Novecento sconvolsero il pianeta, uscendone ammaccato e la seconda volta ferito quasi a morte.
Di seguito, iniziò la stagione migliore della nostra storia, quella del secondo dopoguerra, impersonata nella fase iniziale da Alcide De Gasperi. Stagione che produsse un «patriottismo sobrio» atto a favorire un trentennio di clamoroso sviluppo civile ed economico. D’incanto i politici italiani compresero come fosse disdicevole presentarsi nei consessi internazionali battendo i pugni sul tavolo, fare la voce grossa, manifestare in eccesso il loro orgoglio. E quanto più si abbassava il tono delle loro voci, tanto più cresceva la loro reputazione. «Questi italiani hanno un magnifico appetito, ma pessimi denti», aveva ironizzato il cancelliere Bismarck molti anni prima. Adesso invece arrivavano elogi sempre crescenti e non solo dai Paesi alleati; dagli incartamenti segreti venuti alla luce emerge un’equazione che ha il carattere di un dato scientifico: tanto più le classi dirigenti si sentono in dovere di esibire i propri successi, di svelare l’intimità a loro concessa dai partner internazionali, di magnificare le sorti dell’Italia al momento in cui governano (o hanno governato), tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori. E viceversa. Con le crisi degli anni Settanta l’epoca virtuosa di cui si è detto volse al termine e nel decennio conclusivo della prima Repubblica fu la volta di leader, chi più chi meno, propensi a cantare i propri successi sulla scena mondiale.
Negli ultimi vent’anni poi quel vizietto italico è riemerso nei modi presenti alla memoria di chi non ha dimenticato Silvio Berlusconi e qualche suo oppositore. Adesso la tentazione di insistere nell’assunzione di posture baldanzose appare di nuovo forte. Soprattutto nei modi (e non solo quelli della politica) di rivolgerci alla Germania, un Paese che prima e dopo la riunificazione ha realizzato qualcosa che porterà tutti i suoi leader, da Adenauer alla Merkel, ad avere un posto d’onore nei libri di storia. Qualcuno, certo, può cedere alla tentazione di compiacersi per inciampi, come lo scandalo Volkswagen o il capodanno di Colonia, che sono lì a raccontarci come anche i tedeschi abbiano problemi da risolvere. E questo qualcuno può pensare di conseguenza che ci si possa presentare a Berlino con una qualche baldanza. Ma non è saggio. Un debito e una spesa pubblica come i nostri ci mettono in condizioni peggiori di quanto fossero quelle di oltre un secolo fa quando avevamo alle spalle Lissa e Custoza. E per quel che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco. Anzi, niente.