In un saggio Michele Salvati s’interroga sulle ragioni lontane della crisi attuale. Articolo di Paolo Mieli dalla pagine culturali del Corriere della Sera del 1 novembre.
Una paralisi dovuta al peso delle forze antisistema L’ affermazione del fascismo Non furono soltanto le violenze che consentirono a Mussolini di vincere le elezioni del 1924
Quando si parla della storia d’ Italia va sempre tenuto a mente che alle prime elezioni, nel 1861, ebbero diritto di voto 420 mila elettori maschi, meno del 2 per cento della popolazione, e andò a votare solo il 56 per cento di loro, talché il primo Parlamento del nostro Stato unitario venne eletto da circa l’ 1 per cento degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di duecento voti per mandare a Torino un deputato; in uno, solo 89. È questo il punto d’ avvio di un libro di Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’ Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (il Mulino), il quale si propone di mettere a fuoco carenze ed errori che ci aiutano a capire che cosa è accaduto negli ultimi vent’ anni. Una evidenziazione a tratti dissacrante di quel che ha mal funzionato (o non ha funzionato affatto) lungo l’ arco dei 150 anni di unità celebrati nei mesi scorsi in ogni città e piccolo paese d’ Italia. Si parte dunque dalla esiguità del numero di coloro che furono coinvolti nella fase iniziale dell’ avventura. Per poi dividere la storia del Paese in tre stagioni: quella che va dal 1861 al 1913, l’ Italia liberale; quella dal 1914 al 1924, l’ Italia alle prese, in particolare nel primo dopoguerra, con i partiti di massa; e infine – accantonato il ventennio mussoliniano – quella che va dal 1943 al 1993, la cosiddetta Prima Repubblica. Il Regno d’ Italia, e l’ unità italiana di cui abbiamo testé celebrato il 150° anniversario, nascono dunque «dall’ alto», sono costruiti «da un’ élite molto ristretta, da un ceto di politici liberali grosso modo divisi in una destra monarchica, moderata o conservatrice, e in una sinistra in cui confluiscono gli eredi delle forze repubblicane e mazziniane». «Non ho niente contro questa costruzione dall’ alto», dichiara Salvati, «molte unità statali nascono come costruzioni di élite e poi riescono a coinvolgere con successo il popolo nel processo di ampliamento della democrazia». Ma a questa seconda fase da noi si arrivò tardi, molto tardi. Anche restando nell’ ambito di una «costruzione di élite», la nostra nasce con un vizio d’ origine: l’ esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX – la proibizione fatta ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato che la Chiesa non riconosce – renderanno debole il fronte borghese, con conseguenze molto gravi sulla «qualità democratica» dei governi liberali, sulla stessa «tenuta della democrazia» nelle prove che essa sarà costretta ad affrontare dopo la Grande guerra. Per cinquant’ anni, nella fase iniziale della storia d’ Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisistema». Sono i «neri», come li definivano i liberali. Ai quali andavano ad aggiungersi – sul versante politico opposto – i «rossi», cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l’ ossatura del Partito socialista che nascerà a Genova nel 1892 (in Germania la Spd era stata creata nel 1869). I rossi, ancor più dei neri, sono forze antisistema e, per trovare un inizio di dialogo tra socialisti e liberali, tra Filippo Turati e Giovanni Giolitti, si dovrà attendere la vigilia della Prima guerra mondiale. Sulla scia di due studi molto importanti – Il trasformismo come sistema (Laterza) di Giovanni Sabbatucci e Storia d’ Italia e crisi di regime (il Mulino) di Massimo Salvadori – Salvati individua in quel che si è appena detto l’ origine dei problemi successivi: Destra e Sinistra storica non potevano opporsi l’ una all’ altra come in Inghilterra, cioè nella patria della democrazia rappresentativa, facevano già allora i Whigs, i liberali, e i Tories, i conservatori. Nell’ assillo che, in caso di sconfitta, la Destra scegliesse di allearsi con i «neri antisistema», e la Sinistra con i «rossi antisistema», così da poter giungere ad uno strappo della tela unitaria, in quell’ assillo, dicevamo, la lotta politica fu soprattutto una lotta interna a un’ unica grande maggioranza. Una gara la cui posta era la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa. In un bel libro, pubblicato anch’ esso dal Mulino, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea Raffaele Romanelli spiega come anche il passaggio del 1876 dalla Destra di Marco Minghetti alla Sinistra di Agostino Depretis non si configurò in un quadro di alternanza. Depretis portò al governo un «amalgama», come allora fu detto, di un centro aperto alla sinistra moderata (in particolare quella meridionale) «che teneva a distinguersi a sinistra dai gruppi più radicali e a destra dai più retrivi». Agli uni e agli altri «mancavano peraltro programmi e punti di riferimento forti, tali da connotarli in positivo e da fondare una dialettica parlamentare». E così, prosegue Romanelli, «il modello centrista, essendo privo di effettivi antagonisti, risultò dall’ occasionale accorparsi attorno al governo di singoli deputati o gruppi; agiva in questa direzione anche la debolezza della presidenza del Consiglio, giacché il regime parlamentare si era instaurato per via di prassi e formalmente il capo dell’ esecutivo era tuttora il re». Qualche tempo dopo Depretis si compiacque della capacità dei parlamentari di «trasformarsi» scegliendo la via del «progresso». Ma questo verbo «divenne presto uno stigma negativo e “trasformismo” divenne sinonimo di accomodamento interessato, privo di idealità e di forza, di quell’ attitudine alla transazione – alimentata dal connubio di parlamentarismo all’ inglese e di accentramento amministrativo alla francese – per la quale i singoli deputati patteggiavano il loro sostegno alla maggioranza in cambio di favori al proprio collegio, o agli interessi di riferimento, in genere agrari, industriali, finanziari». Già nella seconda metà dell’ Ottocento si potevano constatare i perniciosi effetti dell’ assenza di alternanza o quantomeno di una prospettiva di alternanza. Sidney Sonnino nel 1900 mise bene a fuoco la questione. «I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo in Italia», scrisse, «il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi e delle alleanze e alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla costituzione prima del Regno… l’ ostilità irriducibile del Vaticano che dà colore antidinastico e antiunitario a un partito che altrimenti si presenterebbe soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme e altre ancora rendono, a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi, la destra dei clericali». Non fu dunque – come comunemente si crede – la guerra fredda a determinare qui in Italia, nella seconda metà del Novecento, l’ impossibilità dell’ alternanza. Già un secolo prima, fin dall’ inizio della nostra esperienza unitaria, tale impossibilità fu un carattere basilare del nostro sistema politico, carattere che con il passare degli anni lo rese unico al mondo. Unico. Non ci fu alternanza dopo le elezioni del 1913 (le ultime con il sistema uninominale) quando finalmente, grazie al suffragio universale maschile, andarono alle urne otto milioni e mezzo di elettori, talché i candidati appoggiati dai cattolici e quelli socialisti ottennero ottimi risultati. E neanche dopo le elezioni del 1919 (le prime con il proporzionale) o del 1921 quando i partiti di massa conquistarono la maggioranza in Parlamento. Non potendosi coalizzare tra di loro e non riuscendo a farlo – per il «teorema Sonnino» – con i liberali, i nuovi partiti spalancarono, anzi, le porte alla dittatura. Giustamente poi Salvati si sofferma sulle elezioni del 1924 osservando che, certo, ci furono violenze e un forte clima di intimidazione in molti seggi, «ma non sono queste le ragioni che spiegano il successo della Lista nazionale fascista», la quale ottenne quasi il 65 per cento dei suffragi. Utile precisazione. Nel secondo dopoguerra il problema si ripresentò. Non potendo consentire – dopo il 1947 – l’ ingresso dei comunisti al governo, i partiti laici e, successivamente, i socialisti furono «costretti» a partecipare ad un governo quasi sempre a guida democristiana. Di qui «la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni – sono cinquanta i governi della Prima Repubblica, più di uno all’ anno – ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi». Questa «la conseguenza della coazione a stare insieme di partiti che programmi alternativi pur li avrebbero avuti – a differenza dei notabili dell’ Italia liberale – ma non potevano esprimerli attraverso una scelta di opposizione, per il rischio di far vincere il grande oppositore antisistema: le diversità programmatiche dovevano essere smussate attraverso continue mediazioni interne, che si riflettono nel vorticoso succedersi di governi espressi da una classe dirigente che è sempre la stessa». E se c’ è un ceto di governo permanente, «deve anche esistere un ceto di opposizione permanente: una situazione questa – la certezza che non si sarà mai chiamati a governare – che di sicuro non giova a un’ evoluzione riformistica del partito di opposizione». Salvati qui parla esplicitamente di «lesione dei principi democratici» provocata da questo stato di cose. Lesione che avrà come effetto «una sempre minore efficacia dell’ azione dei governi». Debole capacità di governo che «si vedrà meno nella lunga fase dei governi centristi, tra il 1948 e il 1963, soprattutto per lo strapotere che la Dc esercitava nei confronti dei partiti minori». Forse un benefico effetto avrebbe potuto averlo la «buona» legge elettorale maggioritaria del 1953 che, però, non passò. Cosicché la Dc fu costretta ad allargare la maggioranza ai socialisti, i quali dalla metà degli anni Cinquanta andavano staccandosi dal Pci. Nel corso di questo tragitto ci fu nel 1960 il governo guidato da Fernando Tambroni con i voti del Movimento sociale italiano, «tentativo fallito», specifica Salvati, «in realtà non intensamente voluto» (interessante puntualizzazione). Fu poi la volta delle «convergenze parallele» e, finalmente nel 1963, del primo centrosinistra organico con il Psi. All’ area di maggioranza «si aggiungeva un grande e orgoglioso partito che arrivava al governo con un programma di riforme robusto: nulla di incompatibile con un’ economia capitalistica, ma tale da preoccupare gran parte dei ceti dai quali la Dc traeva i suoi consensi». Con il tempo, «il Psi venne a più miti consigli, scambiando il radicalismo delle riforme con un accesso sempre più ampio alle pratiche di lottizzazione». E, se si considera che da quel momento i sindacati ebbero un rapporto assai fluido con tutte le forze di governo e che i comunisti, i quali pure fino al 1976 rimasero fuori dalla stanza dei bottoni, furono «ben dentro» i luoghi in cui si decideva la destinazione delle risorse, si comprende come e da cosa ha avuto origine la lievitazione del debito pubblico. In un libro molto denso e intelligente testé pubblicato da Einaudi, Pensare l’ Italia , Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone si soffermano su quegli anni con acute osservazioni. Galli della Loggia spiega bene le caratteristiche di tutto il secondo dopoguerra. Anni in cui «noi realizziamo la seconda, massiccia ondata di industrializzazione che ci rende un Paese definitivamente moderno», percorrendo contemporaneamente tre strade: quella della costruzione di un regime democratico, quella della progressiva messa a punto di un sistema di Welfare State, e, infine, quella dell’ allargamento dell’ apparato produttivo industriale. Ciò che ha voluto dire che «tra il 1945 e il 1968 noi abbiamo dovuto mettere ai voti ogni cinque anni la nostra rivoluzione industriale», così che «il prezzo della modernizzazione italiana fu uno statalismo fuori misura». Salvati definisce un «capolavoro politico» della Dc l’ essere riuscita a tenere il Pci, «partito antisistema», fuori dalla maggioranza senza compromettere la natura democratica del sistema stesso. E tutto andò per il meglio nella stagione del centrismo. Ma, finita l’ industrializzazione «facile» del primo dopoguerra, «le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo le più idonee a indirizzare un’ economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente». Così da quando, dopo il 1953, iniziò l’ opera di coinvolgimento del Partito socialista (che andò in porto dieci anni dopo, nel 1963) le cose cambiarono: era inevitabile «che, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello programmatico, sia, e sempre di più, sul piano della spartizione del potere, i contrasti (e dunque le difficoltà) di governo aumentassero di molto». E qui una notazione importante: che «un Partito socialista collaborasse stabilmente con una Democrazia cristiana fu un fenomeno anomalo, foriero di conflitti e incoerenze politiche, che si giustificava solo per la presenza di un partito antisistema che doveva essere escluso dal governo: date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell’ alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologico-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche». L’ intera seconda parte della Prima Repubblica – trent’ anni, dal 1963 al 1993 – fu governata da governi di centrosinistra con un, più o meno esplicito, coinvolgimento del Pci. E qui la tesi di Salvati – espressa per sua stessa ammissione «in modo apodittico» – è che in quella stagione «siamo entrati in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri Paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centrosinistra». Tesi che «non salva l’ opposizione comunista, che è anzi l’ elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali». Discorso che, ovviamente, investe anche i governi della cosiddetta Seconda Repubblica. È vero che negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia tenne lo stesso ritmo del resto d’ Europa (che, però, negli anni Cinquanta e Sessanta era stato maggiore). Ma questo è potuto accadere perché negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia ha potuto godere di un sostegno fiscale straordinario, «quello, appunto, che nasceva dai disavanzi pubblici e diede origine al colossale debito che tuttora ci affligge». Svalutazione della lira e «sommerso», vale a dire evasione diffusa delle tasse nelle aree di maggior sviluppo, fecero il resto. Poi, però, quando si arrivò all’ ora della verità, venne al pettine il nodo di cui si è detto, l’ inidoneità delle visioni di politica economica riconducibili a Dc, Psi e Pci. Salvati è particolarmente severo con quelle della sinistra «dove, fino alla fine degli anni Ottanta, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo». Discorso che vale in pieno per il Partito comunista. Ma anche per quello socialista, il quale «ancorché staccatosi dall’ alleanza con il Pci nei primi anni Sessanta, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni Settanta». Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni, «l’ anomalia del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere». Così i partiti di governo nella stagione del centrosinistra «divisi al loro interno da conflitti ideologici di antica origine e da lotte di potere sempre più aspre, tallonati dai sindacati e dal Pci, furono incapaci non soltanto di prendere la posizione dura di de Gaulle (e più tardi della Thatcher), ma anche di avviare una concertazione costruttiva come avveniva in altre democrazie: il sindacato e, dietro di esso, il Pci, lo impedivano e bisognerà attendere la crisi finale della Prima Repubblica affinché una concertazione efficace possa aver luogo… Insomma, la concertazione efficace e il definitivo sradicamento dell’ inflazione (in mezzo a sofferenze e contorsioni ideologiche di cui le dimissioni di Bruno Trentin, dopo aver sottoscritto l’ accordo del 1992 sulla scala mobile, restano l’ esempio più illuminante) avvennero con dieci anni o più di ritardo rispetto agli altri Paesi europei». Salvati non esita a puntare l’ indice contro «la prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ ostacolare la formulazione e l’ esecuzione di politiche economiche efficaci». Dunque, per quel che riguarda la storia della Prima Repubblica, all’ epoca dei governi centristi «le classi dirigenti fecero, nella buona sostanza, le scelte giuste e colsero le occasioni di sviluppo che ad esse si erano presentate»; mentre la cause del ristagno relativo vanno rintracciate nelle culture politiche che prevalsero nei trent’ anni del centrosinistra. Tesi originale in sé. Ma ancor più interessante se si considera che a proporla è il padre ed inventore del Partito democratico, cioè la forza politica che raccoglie gli eredi di quella stagione. Poi, gran parte delle riforme attuate dai primi governi della Seconda Repubblica e soprattutto dagli ultimi due governi della Prima (quelli presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi) – sostiene Salvati – si sono mosse, pur con qualche errore, nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema gli elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari all’ attuale fase economica mondiale. «Ma il problema di fondo», aggiunge, «è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato». E, come ha documentato Fabrizio Barca in Italia frenata (Donzelli), questo contesto ha provocato tante e tali resistenze che, passato l’ effetto di tali governi, quasi tutto è tornato al punto di partenza. Un libro a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari, L’ Italia possibile. Equità e crescita (Brioschi) ha recentemente sostenuto la tesi (di Mario Tronti) secondo la quale – in sintesi – una politica sindacale più aggressiva dopo la svalutazione del 1992-96, e dunque una crescita più sostenuta dei salari, una minore possibilità di ricorrere al lavoro precario e a basso costo, avrebbero indotto le imprese a maggiori investimenti in innovazione. E, con ciò, avrebbero provocato una maggiore crescita sia della produttività che della domanda interna e di conseguenza del reddito complessivo. Salvati risponde che «la tesi è interessante, l’ argomentazione che la sostiene è ben costruita» e pur tuttavia «non è convincente né da un punto di vista economico, né da uno politico». La «colpa» del ristagno – secondo l’ autore di Tre pezzi facili sull’ Italia – va attribuita a squilibri di finanza pubblica accumulati nel passato, ad un tessuto produttivo debole o, più in generale, a fattori reali d’ offerta degenerati come conseguenza delle mancate riforme del «lungo centrosinistra». Gli errori successivi («errori che sarebbero stati evitabili nelle condizioni di forza sindacale e di prevalenza politica di coalizioni pro-labour nella seconda parte degli anni Novecento») sono semmai una conseguenza di quella colpa. Circola da tempo una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra, alimentata soprattutto dall’ insoddisfazione per la rissa politica e per i deludenti esiti economici della Seconda. «Insoddisfazione più che giustificata», chiosa Salvati, «ma che non deve condurre a mitizzare una fase non felice della nostra vita pubblica e la politica economica in essa attuata; l’ eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli stessi esiti deludenti del periodo successivo». Mai da uno studioso di sinistra erano state usate parole così aspre nei confronti della stagione che si aprì con il governo guidato da Aldo Moro e da Pietro Nenni nel dicembre del 1963
Mieli Paolo
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