Fin dal ‘500 esisteva una comunicazione d’uso pratico capace di unire le classi sociali e superare i dialetti locali
Paolo Di Stefano Corriere della Sera 26 gennaio
La storia della lingua italiana, di solito, viene raccontata come la persistenza di una polarità tra lingua scritta, colta, letteraria da una parte e ricca varietà orale di dialetti dall’altra. Per un grande studioso come Carlo Dionisotti la letteratura è stata «il più forte elemento unitario»: l’italiano sarebbe stato per secoli una lingua, unicamente scritta e posseduta da pochi, pressoché impermeabile alla «selva» degli idiomi locali. Secondo l’idea più diffusa, l’avvenuta unificazione politica non era ancora unificazione linguistica, cui avrebbero contribuito numerosi fenomeni, tra cui la scolarizzazione, la crescita dell’industria e la conseguente migrazione interna, la diffusione della stampa e infine la forza attrattiva della televisione. È la tesi di tanti, tra cui Tullio De Mauro. Ma da qualche tempo si fa strada un’idea diversa, più sfumata e meno bipolare.
L’italiano nascosto , il nuovo libro di Enrico Testa (Einaudi) interpreta questa visione nuova e la illustra con l’avallo di numerosi documenti, alcuni dei quali rari o inediti. «Il libro — dice Testa, docente di Storia della lingua all’Università di Genova, oltre che poeta di valore — propone un’interpretazione delle vicende dell’italiano completamente diversa da quella canonica che vedeva in epoca preunitaria una bipartizione tra letterati e rozzi parlanti dialettali. È impossibile non pensare che esistesse, nel corso dei secoli, una lingua intermedia d’uso pratico che permettesse una comunicazione tra scriventi e parlanti di luoghi e strati sociali differenti». È ciò che sosteneva Ugo Foscolo quando ipotizzava l’esistenza di una lingua comune, «corrente e vivissima in tutte le provincie intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme, ed era anche un po’ letteraria»: una «lingua d’espediente», suggerita dai bisogni primari quotidiani, «diversa in tutto da’ dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune qualità bastarde di tutti». Insomma, un terzo polo: un italiano capace di stabilire contatti e scambi orizzontali tra le regioni e verticali tra i livelli sociali. Di questa varietà di mezzo, che Tommaso Landolfi chiamò «italiano pidocchiale», Testa va alla ricerca risalendo al Cinquecento.
«È un italiano che per secoli ha una forte resistenza: ci sono alcune strutture-base di lunga durata che corrono come un filo nascosto e risalgono alla prosa del Duecento». Urgenza comunicativa e «passione di dirsi», secondo la definizione di Claude Hagège, spingono anche la grande massa dei semicolti, né analfabeti totali né arcadi, a prendere in mano la penna. Ai semicolti si deve quell’opera di messa di commistione tra oralità e scrittura che produce una lingua a metà strada tra l’italiano normativo e il dialetto. «È interessante chiedersi come si rivolgevano i semicolti alle autorità per superare la distanza intellettuale e fisica. Impossibile pensare a una netta paratia che divida la letteratura alta e le classi popolari. Abbiamo testimonianze di ciabattini che recitano Dante e di gondolieri che cantano le arie di Metastasio…». Si aprono altri interrogativi, socioculturali: «Che letture facevano i semicolti per impadronirsi di quel minimo di italiano utile alla comunicazione pratica e su che libri soddisfacevano le loro esigenze intellettuali e artistiche?». Con l’espressione «libri per leggere» si definiscono quelle opere, per lo più di paraletteratura, molto diffuse a livello popolare (equivalenti ai tanti titoli che oggi affollano le classifiche): libri devozionali, romanzi d’avventura, d’armi e d’amore, cronache, leggende, libri di viaggio eccetera. Testa ricorda la lista di undici titoli in volgare fornita dal mugnaio friulano Menocchio durante il processo che nel 1601 gli costò la condanna a morte per eresia: dal Decameron non purgato al Fioretto della Bibbia . Lo studio di Testa chiama a raccolta streghe e servitori, mezzadri, pescivendoli, mercanti, parroci, catechisti, maestri di strada, briganti e soldati, monaci: personaggi che portano alla penna (e probabilmente sulle labbra) un italiano capace di farsi capire ovunque ben prima che comparisse sulla scena Mike Bongiorno, assunto troppo spesso come fascinoso tramite dell’italianizzazione, con il maestro Manzi e le canzoni di Sanremo.
«D’altra parte — continua Testa — che strumenti linguistici usavano, per esempio, le autorità religiose per trasmettere princìpi e ammaestramenti ai semplici?». È emblematica la figura di Alfonso Maria de Liguori, fondatore, nel Settecento, dell’ordine dei Redentoristi nel Regno di Napoli, i cui «brevi avvertimenti» e schemi predicatòriȋ erano destinati all’apprendimento dell’italiano dei suoi allievi, con l’invito a mitigare gli eccessi retorici della lingua della predica, adottando moduli più semplici e sintatticamente franti in direzione comunicativa. E i grandi letterati, i prìncipi della cultura classicistica, i notai, gli avvocati, i religiosi come si rivolgevano ai loro servitori? Un esempio è quello di Baldassar Castiglione, esponente autorevole della diplomazia tra Chiesa, Mantova e Urbino in epoca rinascimentale. Guardando al retroscena del laboratorio di scrittura privato, per esempio nelle lettere di carattere più domestico e familiare, si nota lo sforzo di adattamento al livello linguistico del destinatario. Quando scrive al suo fattore, il rustico Cristoforo Tirabosco, il Castiglione mostra di presupporre un terreno comune di comprensione e una competenza almeno passiva dell’interlocutore. Una dinamica analoga a quella che legava Vittorio Alfieri con il suo fedele servitore Francesco Elia, autore di un gruppetto di lettere che dimostrano una discreta familiarità con la scrittura, oltre a una «intelligente perspicacia e sottilissima avvedutezza», come segnalò Lanfranco Caretti.
«È difficile pensare — dice Testa — che questo tipo di lingua non venisse utilizzato anche oralmente, quando si incontravano tra loro personaggi di diversa estrazione culturale o di diversa provenienza geografica. Il caso più clamoroso è quello dei frati itineranti o dei maestri irregolari che, pur conoscendo un solo dialetto, riuscivano a stabilire contatti con uditori linguisticamente distanti o si muovevano per insegnare l’abaco e i rudimenti della lingua». La dimensione orale rimane comunque necessariamente più oscura. «Per l’oralità, non avendo documentazione, è chiaro che dobbiamo affidarci a una sorta di procedimento indiziario, ma si può facilmente immaginare un panorama analogo a quello della lingua scritta. L’italiano ”pidocchiale” o d’espediente ha sempre una forte componente locale, soprattutto sul piano fonetico e lessicale, però al di sotto si scopre una condivisione sintattica e morfologica e una resistente continuità diacronica». Ci sono luoghi deputati in cui questo italiano «pidocchiale» viene coltivato più che altrove: officine, laboratori, botteghe, confraternite che utilizzavano l’italiano per statuti e verbali, monasteri femminili in cui le pratiche religiose si sposavano con l’apprendimento della lingua. «Paradossalmente, — ricorda Testa — persino il brigantaggio nell’Ottocento ha finito per diffondere l’italiano, perché anche per scrivere le lettere di riscatto a un ricco possidente bisognava farsi capire».
Enrico Testa insegna Storia della lingua italiana all’università di Genova.
Il suo ultimo volume è «L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale»
(Einaudi, pp. 292, 20).