Quelle ragazze che fecero la Patria
Articolo di Aldo Cazzullo dal Corriere della Sera 8 marzo.
CRISTINA DI BELGIOJOSO E LE ALTRE
Quelle ragazze che fecero la patria
La donna del Risorgimento è pensata come compagna dell’eroe: Anita Garibaldi. O femmina fatale: la contessa di Castiglione. O «Mater dolorosa»: Adelaide Cairoli, madre di cinque figli; quattro cadono da volontari, il superstite diventa presidente del Consiglio. Non diversamente, la donna della Resistenza evoca staffette partigiane, fughe in bicicletta, messaggi nascosti nei corsetti.
Non è andata (solo) così. Nel Risorgimento, come nella Resistenza, le donne spesso sono combattenti, armi in pugno. O sono leader politici. È consolatorio pensarle come crocerossine solerti, mamme premurose, spose in pena. Invece le donne influenzano gli eventi, stilano proclami, raccolgono fondi, prendono le decisioni, danno ordini ai maschi.
La storia restituisce i nomi delle aristocratiche. Ma furono migliaia, nell’Italia preunitaria, le borghesi e le popolane mandate sotto processo, talvolta in esilio, in carcere, anche sul patibolo. E nel 1848 salgono sulle barricate. Come Colomba Antonietti, trasteverina di origine umbra, sposa di un aristocratico che per aver violato le leggi del tempo viene non solo diseredato ma incarcerato, morta accanto al marito sotto le mura di Roma, vestita da uomo, per difendere la Repubblica. Come, a Brescia, Carolina Santi Bevilacqua, che allestisce e dirige un ospedale da campo al seguito dell’esercito piemontese, dove si spegnerà il figlio Girolamo. Come Elisabetta Michiel Giustinian e Teresa Perissinotti Manin, che a Venezia coordinano l’equipaggiamento dei volontari che resistono agli austriaci. Come Marianna De Crescenzo, che nel 1860 accoglie Garibaldi a Napoli alla testa di duecento armati. Ma il personaggio più straordinario è Cristina Trivulzio di Belgiojoso, la principessa ritratta da Hayez, che ispira a Stendhal la duchessa Sanseverina de La Certosa di Parma, porta da Napoli in Lombardia un battaglione di duecento uomini per combattere gli austriaci, perde i beni sequestrati da Radetzky, scende a Roma dove recluta centinaia di infermiere insieme con Giulia Bovio Paolucci ed Enrichetta di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane («meretrici infami», secondo i giornali del Regno borbonico).
Purtroppo non vedremo fiction su di loro. Non su Clara Maffei, amica di Verdi e Manzoni. Non sulle ragazze che nel 1848 fondarono i loro primi giornali: La donna italiana a Roma, La Tribuna delle donne a Palermo, Il circolo delle donne italiane a Venezia. La femmina nell’immaginario televisivo può essere educatrice – come la grande Maria Montessori -, cantante – come il trio Lescano -, sarta di successo, come le sorelle Fontana. Al più, eroina romantica, come Anita (ora finalmente si sta girando, in ritardo, la fiction sulla donna di Garibaldi, più volte annunciata e rimandata). Ma non si faranno fiction su Cleonice Tomassetti, Gabriella Degli Esposti, Iris Versari e le altre martiri combattenti della Resistenza; come Irma Bandiera, che accettò una fine crudele davanti alla casa dei suoi figli pur di non rivelare i nomi dei compagni.
La mentalità pare ancora quella con cui Vittorio Emanuele II, che adorava la donne ma non le vedeva in battaglia o in Parlamento, pensò di ricompensare le patriote con il dono galante di un anello bianco, rosso e verde. Ma le veneziane che il 21 ottobre 1866 manifestarono in piazza San Marco per chiedere il diritto di voto non volevano regalini. Volevano fare politica. Avrebbero dovuto attendere ottant’anni: troppo. Se fossero state ascoltate, oggi l’Italia sarebbe migliore. Ricordiamoci di loro, nel festeggiare questo 8 marzo: di quanto hanno fatto per darci una patria, di quanto la nazione sia in debito verso la loro memoria.
Aldo Cazzullo