Cristina Battocletti Sole 24 ore 4 febbraio
Nelida Milani e Anna Maria Mori sono sorelle di uno stesso ventre che non esiste più se non geograficamente, l’Istria: una striscia di terra tra il Golfo di Trieste e quello del Quarnero, che fu italiana dal Trattato di Rapallo del 1920 al Trattato di pace di Parigi del 1947.
Bora. Istria, il vento dell’esilio racconta a quattro mani il passato delle bambine Nelida e Anna Maria, nate nel 1939 e nel 1936, divise dalla Storia, che fece di Nelida prima una cittadina jugoslava e poi croata, e di Anna Maria una profuga e poi di nuovo un’italiana. Un’infanzia iniziata in una terra generosa, tra l’arena romana e le calli veneziane, il mare Adriatico con il sapore di un Sud impensabile per la vicina Trieste, bagnato dalle cantilene giuliano-venete. Una fanciullezza presto sporcata dalla Seconda guerra mondiale, le cui ferite sono affrontate dalle due autrici da adulte, quando entrambe sono già scrittrici, Milani anche docente universitaria e Mori giornalista. Bora, pubblicato vent’anni fa da Frassinelli, oggi torna nelle librerie edita da Marsilio, con la prefazione dello studioso Guido Crainz, per le celebrazioni del 10 febbraio, Giorno del Ricordo, istituito con una legge nel 2004 per rendere onore alle vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati. Una diaspora iniziata già dopo l’8 settembre del 1943 in Dalmazia (una regione che si estende dalle isole Quarnerine a nord-Ovest, sino all’attuale confine tra Montenegro e Albania), continuata fino al 1956, il cui picco venne raggiunto con il Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947, in cui fu istituito il Territorio Libero di Trieste che consegnava la Zona A, da Duino a Muggia, compresa Trieste, all’amministrazione angloamericana; la zona B, la parte nordoccidentale dell’Istria, a quella jugoslava.
Il racconto di vita delle due ragazze, reso in una lingua vividissima, cullata e curata, senza per questo levigare le durezze, mescola testimonianze appassionate e mitologiche di una terra che si rigenera in bellezza, sublimata da Giani Stuparich nell’Eden indelebile di cibi e profumi (L’Isola, Einaudi, 1942; Ricordi istriani, Edizioni dello Zibaldone, 1964). Ma anche la sofferenza di vedere in quella penisola lo stupro bellico raddoppiato dal divieto per gli italiani di conservare le proprie case sudate con il lavoro e di coltivare la propria identità nazionale e linguistica. Lo stesso era accaduto, a parti invertite, durante il ventennio fascista agli sloveni, che non potevano usare il proprio idioma, tanto meno associarsi o avere un giornale. Lo ricorda l’onesta e preziosa ricostruzione di Antonella Scarpa, figlia di esule polesano, che mette in evidenza tanto l’incendio da parte degli squadristi italiani del 13 luglio 1920 al Narodni Dom (la casa della cultura slovena) di Trieste, quanto la strage di Vergarolla, del 18 agosto 1946 a Pola. Qui lo scoppio di mine e materiale bellico uccise quasi cento civili, tra cui i due figli del medico eroe, Geppino Micheletti, che continuò a prestar soccorso e operare i feriti, nonostante avesse riconosciuto tra le vittime i due figli. Una vicenda impressa nella testa di Nelida che rammenta di quando d’improvviso il mare sputava «sangue e fuoco», mentre i polesani erano riuniti sulla spiaggia per assistere a una attesissima regata. Non si sa ancora quali siano state le cause della tragedia: «Autocombustione? Sabotaggio? Atto terroristico? Gli archivi di Roma, di Belgrado e di Londra sono sempre sigillati e la verità non la si sa ancora», denuncia Milani. Dopo quella strage moltissimi italiani se ne andarono «come… un lutto senza fine».
Sono 350mila, sottolinea Crainz, gli esuli sparpagliatisi tra Italia, Europa, America, Argentina e Australia, dopo essere stati prelevati da grandi navi, come la “Toscana”, assieme alle proprie masserizie, lasciate a forza a Trieste, e oggi riunite in quel magnifico museo della nostalgia che è il Magazzino 18 nel porto Vecchio. Tra i polesani in partenza c’è anche Sergio Endrigo che dedica a questa esperienza il brano 1947. «Come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà», canta Endrigo, ricordando così anche i molti che si tolsero la vita per non voler recidere le proprie radici.