Alfredo Sessa Corriere della Sera 22 agosto
Ottavio Bottecchia fu un campione imperfetto, come tutti i veri campioni.
Amava pedalare tra il silenzio delle montagne, che sembravano rimandare l’eco del suo mutismo di corridore veneto, povero, semplice e solido. Senza immaginare di ritrovarsi, un giorno, avvolto dal frastuono di una improvvisa fama sportiva. Aveva, per carattere, la solitudine come compagna. Invece attraversò un’epoca in cui il gioco di squadra iniziava a contare nelle grandi classiche del ciclismo, tra fragili alleanze e frequenti pugnalate alle spalle. Non fu facile, per lui, adattarsi vittoriosamente agli intrighi e alle astuzie della Grande Boucle, il Tour de France.
Bottecchia fu un campione imperfetto, e quindi autentico, perché incarnò fino in fondo il mistero dello sport, che assomiglia stranamente al mistero della vita. E uscì di scena dalla vita in maniera arcana, come accade spesso agli eroi. È stato il primo italiano a trionfare al Tour de France nel 1924, il primo corridore a vestire la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa. Nel 1925 ha concesso un travolgente bis. Ma non ha mai vinto una grande classica in linea, e non ha mai vinto un Giro d’Italia. La parabola sportiva, già nel 1927, apparve in declino, il motore era andato fuori giri. La sua vera patria ciclistica fu la Francia, dove il pubblico gridava «Botescià!». La sua chanson de geste furono le dure tappe dei Pirenei, dove Ottavio frullava pedalate come Orlando mulinava la Durlindana.
Bottecchia, raccontano i cronisti dell’epoca, era un corridore fluido e potente, autore di scatti in grado di sgranare il gruppo come un rosario, e di sfidare le montagne mangia-ciclisti con progressioni perentorie. Come Merckx, fu autore di un assolo di 140 chilometri in maglia gialla sui Pirenei. Ma il suo fascino, a novanta anni dalla morte avvenuta il 15 giugno 1927, non è più una questione di traguardi e di distacchi. Il fascino di Bottecchia è nell’insondabile alchimia che si crea tra la vita reale e lo sport.
Quest’uomo dal naso lungo e affilato, arrivato a 27 anni al ciclismo professionista, è stato il primo vero motivo di orgoglio internazionale dello sport italiano. Eppure fu una festa solo a metà, perché Bottecchia non era fascista, e fu inviso al fascismo. E fu una festa breve perché Bottecchia morì a soli 33 anni sulle strade del Friuli, sua regione di adozione, durante un allenamento solitario. La versione ufficiale parlò di caduta in seguito a un malore. Ma il caso Bottecchia, 90 anni dopo, rimane un cold case, che non esclude del tutto l’aggressione di una squadraccia fascista, il racket delle scommesse, o un movente economico o sentimentale.
Ottavio è muratore, carrettiere, ciclista-bersagliere che si guadagna la medaglia di bronzo al valore nella Grande Guerra, cavallino indomito che si scrolla di dosso le redini del fascismo, infine campione ciclista di fama internazionale,improvvisamente ricco dopo una gioventù duramente spartana. Sulla vita-mistero di Bottecchia ha indagato Claudio Gregori, giornalista, colto ed elegante specialista di storia dello sport. Quello che ne esce fuori è un libro sorprendente, Il corno di Orlando, vita, morte e misteri di Ottavio Bottecchia.
Attraverso un lavoro di ricerca molto accurato, Gregori offre una ricostruzione dettagliata del ciclismo di inizio Novecento. Il libro è raccolta di figurine, nitido ritratto di atleti, dirigenti, politici e giornalisti che gravitavano intorno al mondo delle corse. È viaggio, scoperta e contemplazione di paesi e città di inizio ’900. È precisa e introvabile cronaca sportiva dell’epoca, sconfinata dichiarazione di amore per il ciclismo.
La corsa è ancora avventura nella giungla, viaggio nell’ignoto. Si parte in piena notte per affrontare tappe disumane, qualche spettatore è alla finestra in pigiama o camicia da notte. In occasione della frazione più lunga del Tour del 1925, la Metz-Dunkerque di 433 km, l’inviato di Le Petit Parisien spia il rifornimento di Bottecchia e annota una mezza dozzina di uova, otto banane, sandwich con marmellata, torte di riso, tavolette di cioccolato, datteri in quantità e zucchero senza risparmio. Lo sforzo è sovrumano, le condizioni delle strade spesso infernali.
Ottusi regolamenti di granito tormentano corridori soli e disperati, che forano a ripetizione, cambiano la gomma al chiaro di luna, riparano alla meglio, si fermano in osteria per rifocillarsi, contrattano con il pubblico per avere una mantellina e proteggersi da freddo e pioggia. Da guerra senza quartiere, la corsa si trasforma spesso in comica: i ciclisti schivano mucche, oche, cani e persone, si fermano per “girare la ruota” e mettere il rapporto più agile prima di aggrapparsi a una grande salita. A ogni gomma bucata, gli avversari scattano come avvoltoi per avvantaggiarsi.
Sarà il Tour del 1925, il secondo vinto da Bottecchia, a vedere nascere regolamenti più moderni e più rispettosi della fatica dei corridori. Viene finalmente autorizzato il gioco di squadra. Ma anche allora, Botescià pedalerà, fiero, in compagnia della solitudine.