Rosa Genoni
Per farsi sentire in una casa con 18 bambini la soluzione non è urlare, ma andarsene. È questo che fece Rosa Genoni, la prima di quei 18 piccoli, quando lasciò la famiglia e le colline valtellinesi di Tirano per Milano. Lì abitava la zia, che le assicurava pasti caldi ma anche un massacrante lavoro da “piscinina”, piccola assistente, nel suo atelier per dame metropolitane. Rosa Genoni sapeva di avere una voce potente e nonostante gli anni passati a trascinare pacchi di vestiti per la città, pesanti da piegare la schiena delle ragazzine, come nel ritratto dolce e tremendo di Emilio Longoni, (la Piscinina 1891) riuscì a farla sentire. Anzi, furono proprio quei pacchi ad aiutarla.
Di Rosa Genoni si è tornato a parlare poco più di dieci anni fa, grazie alla nipote, Raffaella Podreider, che dopo la pensione ha deciso che era finalmente tempo di salvare dall’oblio questa figura monumentale ma dimenticata della nostra moda. Fra Otto e Novecento Genoni fu infaticabile promotrice di una moda “italiana” per stile e produzione, esaltazione dell’alto artigianato, libera dai diktat francesi e mezzo di liberazione per le donne: «Il figurino di Parigi, che rende spesso l’italiana una bambola, la moda inglese che la dissecca e l’irrigidisce, quella tedesca che l’infagotta, non sono adatti alla nostra indole etnica e storica, alle nostra tradizioni d’arte, al nostro tipo fisico», scrive nel 1908 su «Vita femminile italiana». La moda di Parigi Genoni l’aveva studiata da vicino, quando nel 1884 andò a Parigi per conto del partito socialista milanese (la piscinina aveva trovato tempo e forza di imparare il francese alle scuole serali) e negli atelier vide cascate di tessuti, ricami, merletti fatti da mani di oscure artiste domestiche in Italia trasformarsi nella couture più desiderata.
Il ritorno in Italia è una missione: ridare dignità e indipendenza alla moda italiana. Lo stile si rifarà all’arte del Medioevo e del Rinascimento, ma anche dai costumi regionali. All’Expo di Milano del 1906 organizza un proprio mini-padiglione con abiti ispirati a Botticelli e Pisanello, e diffonde un opuscolo “al visitatore”, il suo manifesto: la moda italiana scaturisce e si alimenta dall’incontro fra creazione della mente e azione delle mani. È l’alta artigianalità, oggi cuore della narrativa di quasi tutti i marchi del lusso. Prova a diffondere questa visione nell’atelier milanese di H. Haardt e Figli, dove nel frattempo è diventata première, ma le signore inorridiscono alla proposta di abiti “italiani”. Nella città in cui i fratelli Bocconi chiamano “Aux Villes d’Italie” i loro primi grandi magazzini, lei pubblica una fantasiosa ma efficace intervista a un sarto francese che dice: «Voi siete i primi artisti nell’arte decorativa, ma siete anche gli unici a non essersene accorti». La missione è difficile, ma non impossibile: prima dell’abito futurista di Giacomo Balla, lei firma lo stile “sport”, culmine della rivoluzione contro corsetti e crinoline già avviata con gli abiti Tanagra, dai drappeggi comodi ed eleganti ispirati a quelli delle statuine ellenistiche trovate in Beozia. Mentre a Parigi Coco Chanel sta iniziando a riflettere sugli stessi temi, Genoni indossa un Tanagra al primo congresso nazionale delle donne italiane nel 1908, per parlare della moda come forza di liberazione per le donne e per il Paese.
Un anno dopo, anche grazie a lei, nasce a Milano il Comitato per la moda di pura arte italiana, prima associazione di settore che anticipa di 70 anni l’incontro – sempre in Lombardia – fra creatività e aziende, visto che è animato da imprenditori tessili come Lanerossi, Jesurum, Clerici. Ma non sono solo le dame le agenti della rivoluzione Genoni, che alla Società Umanitaria tiene il primo corso di storia del costume e apre una scuola di sartoria per detenute a San Vittore. Arriva il fascismo a chiederle fedeltà, lei gliela nega e si ritira a Sanremo. La sua voce si spegnerà nel 1954, tre anni dopo le prime sfilate di moda italiana organizzate da Bista Giorgini a Palazzo Pitti. Resta poco più di un fantasma, finché arriva la nipote Raffaella. Forse l’Italia, la moda, sono finalmente pronte a riscoprire Rosa Genoni, ed ecco le piazze intitolate, libri dai titoli volitivi (Indossare la battaglia, La donna che odiava ai corsetti), la prima vera mostra appena chiusa a Palazzo Zuckermann a Padova, un progetto per ricordarla anche in Australia, terra dei sogni dove spedì alcuni di quei tanti, chiassosi fratelli che per sua e nostra fortuna l’avevano cacciata di casa.
Chiara Beghelli Sole 24 Ore 13 ottobre 2024
Rosa Genoni all’Expo di Milano del 1906