Vi propongo di essere i nuovi briganti del Sud, donne ed uomini che hanno combattuto la loro battaglia di libertà contro i soprusi, coloro che, pur definiti dei delinquenti dai vincitori, in realtà difesero la loro terra…
dal discorso di Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla presidenza del consiglio e leader del Grande Sud, in una manifestazione a Campobasso del suo movimento domenica 2 ottobre
Si sta concludendo l’anno dei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia, che ha visto la partecipazione di molti italiani a tutti gli eventi, commemorazioni, convegni, spettacoli che l’hanno celebrata: è stato l’anno della riscoperta di un forte sentimento patriottico, di una ritrovata identità nazionale, della nascita sia pure embrionale di un rinnovato risorgimento civile e morale.
Voci dissonanti in questo clima di festa e partecipazione non sono giunte come era scontato solo dai politici della lega Nord, tra l’altro contraddette in parte dal successo delle iniziative patriottiche nei piccoli e grandi centri dell’Italia settentrionale, ma purtroppo dai movimenti e da forze politiche del meridione, a confermare che a distanza di 150 anni la questione della divisione tra Nord e Sud è ancora una ferita aperta e resta una delle contraddizioni non risolte dell’Unita nazionale.
E’ grave comunque che un uomo di Governo, come Gianfranco Miccichè, si spogli delle sue responsabilità istituzionali per vestire i panni del rivoluzionario, prendendo a modello la figura del brigante meridionale in lotta contro i piemontesi che secondo lui nell’ottocento opprimevano la sua terra.
Miccichè in maniera pedissequa fa sue le interpretazioni del fenomeno del brigantaggio, presenti nella pubblicistica antirisorgimentale degli ultimi anni, in cui in maniera manichea i briganti sono visti come patrioti che combattono per la libertà e l’indipendenza del Sud dal Piemonte e dall’illegittimo stato italiano.
Meno manicheo è stato Ludwig Richard Zimmermann, un ufficiale austriaco che poco più che ventenne ebbe un ruolo direttivo nei ranghi del brigantaggio a sostegno della causa di Francesco II, il sovrano del regno delle Due Sicilie, spodestato sull’onda dell’impresa garibaldina.
Nelle sue memorie fa la storia delle bande e dei suoi capi e ne giustifica le imprese per la vandalica crudeltà dei piemontesi, per le condizioni di miseria ed impoverimento crescente dei contadini, per l’adesione alla causa della monarchia borbonica, ma ne vede progressivamente la loro deriva meno nobile e patriottica e più criminale.
Infatti riflettendo successivamente sugli eventi, di cui era stato protagonista afferma: …ragionevolmente al governo italiano non poteva restare altro che lo spietato annientamento dei briganti, che, seppure in origine, miravano a principi tanto onesti, ormai, diventati banditi comuni, erano diventati una disfatta per tutti.