Lettere a Sergio Romano
Nella sua recensione a un libro di Federico Lucarini su Antonio Salandra, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, Arturo Colombo ricorda che l’uomo politico pugliese rappresentò per l’Italia il liberalismo nazionale, un programma alternativo a quello di Giovanni Giolitti e responsabile dell’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915. Mi chiedo come mai, un secolo dopo, prevalgano ancora le tesi di quell’establishment prevalentemente laico e post azionista (i nipotini di Salandra e Salvemini) che continua a non prendere atto dei meriti dell’epoca giolittiana e delle responsabilità di una corrente politica che trascinò l’Italia nel conflitto con un vero e proprio colpo di Stato (anche se formalmente legalizzato da un Parlamento assediato e minacciato, anche fisicamente). Insomma, in estrema sintesi, forse aveva ragione Giolitti e avevano torto i liberal-nazionali. Ma fa grande fatica a emergere la figura di Giolitti, a mio parere uno dei pochi grandi statisti non accecati dal nazionalismo conservatore reazionario di buona parte della classe politica post risorgimentale.
Angelo Rambaldi
Sulla figura dell’uomo di Stato piemontese esistono oggi, insieme a nuovi studi biografici, i numerosi lavori di Aldo A. Mola e del suo «Centro europeo Giovanni Giolitti». Palmiro Togliatti gli rese un inatteso omaggio dopo la fine della Seconda guerra mondiale e Gaetano Salvemini smise di considerarlo il «ministro della malavita ». Ma è certamente vero che l’«uomo di Dronero», come veniva generalmente chiamato dalla stampa dell’epoca, ha portato con sé nella tomba alcune delle inimicizie e ostilità che avevano accompagnato la sua vita politica. Non piaceva amolti socialisti perché lo consideravano un seduttore e un corruttore, l’uomo che tentava di tagliare le unghie del loro programma. Non piaceva a Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, perché faceva troppe concessioni alla sinistra e ai sindacati. Non piaceva a Luigi Einaudi per le misure dirigiste e stataliste che avevano contraddistinto i suoi governi. Non piaceva ai militari perché aveva duramente criticato la mediocre organizzazione delle forze armate durante la guerra di Libia e dava la sensazione di non riporre alcuna fiducia nei quadri dirigenti dell’Esercito. Non piaceva al re perché la sua autorità oscurava quella del sovrano. Non piaceva a Gaetano Salvemini e ad altri intellettuali di sinistra perché faceva le elezioni, soprattutto al Sud, con le interferenze e le intimidazioni dei prefetti. Non piaceva a D’Annunzio perché non aveva esitato a ordinare il bombardamento di Fiume in cui il poeta era entrato trionfalmente con i suoi legionari nel settembre 1919. Non piaceva ai nazionalisti di Luigi Federzoni perché aveva cercato di evitare la guerra e perché il trattato di Rapallo con la Jugoslavia non aveva dato soddisfazione alle pretese italiane sulla Dalmazia. Non piaceva a Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare, perché la sua tattica, con i cattolici, era quella di mangiarli come il carciofo, una foglia alla volta. E non piaceva aMussolini perché cercò di fare la stessa cosa con i fascisti. È probabilmente questa la ragione, caro Rambaldi, per cui il solomonumento a Giolitti, salvo errore, è il busto collocato nella sala consiliare del municipio di Cuneo. Durante il fascismo fu nascosto da una pesante tenda di stoffa. Oggi è nuovamente visibile.
Sergio Romano Corriere della Sera 4 giugno