Quest’anno fanno l’esame gli ultimi ragazzi nati nel Novecento. Un secolo fa, ai loro trisnonni richiamati in guerra, toccò farla combattendo fra il Piave e il Monte Grappa
Antonio Carioti Corriere della Sera 18 giugno
I ragazzi del ’99 oggi sono gli alunni delle scuole secondarie superiori che, nati appunto nel 1999, tra poco dovranno affrontare l’esame di maturità allo scopo di conquistare un «pezzo di carta» dal valore incerto, per poi scommettere su se stessi con prospettive non certo rosee, continuando gli studi o provando a trovare uno spazio nel mondo del lavoro. Non li attendono anni facili.
Però forse conviene riflettere sui loro predecessori di cento anni fa, i «ragazzi del ’99» celebrati anche da una via nel centro di Milano, nei pressi del Duomo. Quei giovani erano figli di un’Italia povera e prevalentemente agricola, in cui il tasso di analfabetismo superava ampiamente il 40 per cento e solo una minoranza molto ristretta e privilegiata proseguiva gli studi oltre l’obbligo scolastico, fissato a 12 anni. Eppure anche loro un secolo fa, proprio nella seconda metà di giugno, dovettero mettersi alla prova.
Quella generazione fece il suo esame di maturità in Veneto, sul fiume Piave e sul massiccio montano del Grappa, in quella che fu la battaglia decisiva della Prima guerra mondiale sul fronte italiano. Alcuni mesi prima, il 24 ottobre 1917, c’era stata la disfatta di Caporetto: tedeschi e austro-ungarici avevano sfondato le linee del nostro esercito ed erano dilagati dalle Alpi verso la pianura. A stento in novembre era stato possibile fermarli lungo il Piave, nello scontro che fu chiamato «battaglia di arresto». In pratica erano alle porte di Treviso e non lontani da Vicenza.
Il governo di Roma aveva allora silurato il comandante supremo Luigi Cadorna, sostituendolo con Armando Diaz, e sotto le armi erano stati chiamati appunto i giovani nati nel 1899, per rimpinguare i ranghi di un esercito che aveva perso centinaia di migliaia di soldati, per non parlare del materiale bellico, nella disastrosa ritirata dall’Isonzo al Piave. Ma quelle forze fresche, dotate di un entusiasmo che mancava ai logori veterani delle precedenti battaglie, erano attese da momenti molto duri.
Anche il nemico era in difficoltà. I tedeschi, che a Caporetto avevano svolto un ruolo cruciale, avevano ritirato le loro truppe dall’Italia per concentrarle in Francia, dove stavano producendo lo sforzo finale (poi rivelatosi vano) per concludere la guerra vittoriosamente. Germania e Austria-Ungheria erano sottoposte a un blocco navale che ne stava riducendo i popoli alla fame. Ma intanto a Est la Russia, sconvolta dalla rivoluzione e ormai governata dai bolscevichi di Lenin, aveva abbandonato la lotta, siglando il 3 marzo 1918 la pace di Brest-Litovsk. Quindi Vienna aveva potuto ritirare molte unità militari dal fronte orientale per trasferirle in Veneto e in Trentino.
Il 15 giugno 1918 l’Austria-Ungheria tentò la mossa della disperazione per assestare all’Italia un colpo letale. Lanciò il suo esercito in un’offensiva generale, scatenando un inferno di ferro e fuoco sul Grappa e sul Piave. Stavolta però non colse impreparate le armate italiane. E i ragazzi non ancora ventenni furono in prima linea nel respingere l’attacco: dopo circa una settimana di combattimenti furibondi, i soldati asburgici che avevano attraversato il Piave dovettero ritornare sulla sponda da cui erano partiti.
Fu quella che Gabriele d’Annunzio chiamò la «battaglia del Solstizio»: un terribile, decisivo esame di maturità per l’Italia intera, nazione unita sotto la stessa bandiera da meno di sessant’anni. Ma i ragazzi del ’99 lo passarono a pieni voti e la forza dell’Impero asburgico ne uscì fatalmente fiaccata. In pochi mesi sarebbe crollato.
Alto fu il prezzo da pagare, anche se le nostre perdite furono inferiori a quelle austro-ungariche. Circa ottomila soldati italiani caddero nel giugno 1918 e 29 mila furono i feriti. Tra loro molti erano i ragazzi nati nel 1899.
Non è una condizione ideale quella dei giovani d’oggi, ma paragonarla con le tragedie del passato può insegnare qualcosa. Soprattutto a chi usa soffiare sul fuoco di risorgenti nazionalismi.