Se non si è portatori di una visione storica e di strumenti di analisi culturale e di un serio e coerente patrimonio di valori e di idealità su cui fondare programmi di governo, la politica si fa asfittica e di corto respiro ed esposta alle degenerazioni, anche in senso morale, del potere quotidiano. La politica mette così a rischio la sua componente ideale e spirituale, la parte etica e umana della sua natura, di cui peraltro essa non potrà mai spogliarsi del tutto…
Thomas Mann Moniti all’Europa 1947
Il vento della antipolitica soffia da alcuni anni nelle società democratiche dell’Occidente, sostenuto da movimenti e partiti populisti in contrapposizione alle tradizionali forze politiche che hanno governato ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale.
La crisi economica, il discredito della classe dirigente per casi frequenti di corruzione oppure perché al servizio di fazioni e di interessi di parte e non del bene pubblico, hanno accresciuto le distanze tra popolo ed élite politico-economiche e convinto, anche in Italia, molti cittadini che in democrazia gli eletti siano i “portavoce” della volontà popolare, superando di fatto la rappresentanza parlamentare classica, che è legittimata dal voto sì, ma per fare in piena autonomia gli interessi dell’intera Nazione e non di una parte sia pure consistente di essa.
Se guardiamo infatti alla storia dei parlamenti europei dopo la fine dell’assolutismo monarchico, i rappresentanti del popolo, a partire dalla costituzione francese del 1791 e poi in tutte le costituzioni dell’Ottocento (compreso lo Statuto Albertino del 1848), progressivamente acquisirono sempre più la rappresentanza politica di tutta la nazione.
E in Italia, infatti, se l’articolo 1 della Costituzione affida la sovranità al popolo, “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, l’articolo 67 stabilisce che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Niente di più distante, quindi, dai diktat dei populisti o dei sovranisti.
Oggi più che mai, nella crisi dei valori e degli ideali democratici, non va delegittimata la Politica insieme ai suoi esponenti, ma va anzi rifondata nei suoi valori costitutivi, ridandole quel prestigio che aveva alle origini. Piero Calamandrei scrisse che la politica non è una professione. Il che è ovvio se si vuol dire che non può essere soggetta alla stessa logica degli affari. Ma la nobile arte della politica vuol dire vocazione e alta professionalità. Essa, come dice Max Weber, deve mettere insieme l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, ovvero saper commisurare le finalità con i mezzi disponibili, con lo sguardo addestrato a guardare nella realtà della vita. Se questi sono i tratti distintivi dell’uomo politico, la politica non può essere affidata al dilettantismo. Un dilettantismo e un’impreparazione culturale che portano alla demagogia e al disprezzo delle regole della democrazia e dello stato di diritto.
Una professione, quindi, quella del politico, che deve saper unire la razionalità dei programmi e degli obiettivi con la sincerità e la passionalità di accenti nella difesa del patrimonio di valori e ideali del suo Paese, entrando così in sintonia con i bisogni e i sentimenti non solo dei suoi elettori ma di tutti i cittadini.
Chi invece denigra l’arte della politica e parla in nome del popolo oppresso da fantomatici poteri forti, auspicando forme di democrazia diretta, prepara il terreno (eterogenesi dei fini) a forme di governo illiberali e autoritarie; e forse all’avvento dell’Uomo della Provvidenza.
Sergio Casprini