Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera 9 Agosto 2020
È permesso — e per giunta proprio all’indomani della commemorazione della strage alla stazione di Bologna — dire che forse c’è qualcosa che non va nel modo in cui la Repubblica ha costruito la sua memoria e ne ricorda gli eventi cruciali? Pensiamoci un attimo. È in sostanza, la nostra attuale, una memoria (e dunque un calendario commemorativo) costituita da quattro segmenti.
1) assassinii di singole personalità pubbliche (da Giorgio Ambrosoli ad Aldo Moro, da Walter Tobagi a Giovanni Falcone a tanti altri).
2) attentati di varia natura con decine di vittime (da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, a Ustica ai Georgofili, alla stazione di Bologna, appunto);
3) eventi catastrofici di varia natura (dal Vajont al terremoto dell’Irpinia, dell’Aquila, al ponte Morandi ecc.);
4) nodi inquietanti della nostra storia come il «piano Solo», la P2, «Gladio».
Oggi come oggi, insomma, la memoria della Repubblica — quella che a scadenza fissa occupa le pagine dei giornali e impegna il discorso ufficiale, che suscita rievocazioni e ricostruzioni — è pressoché interamente costituita di eventi di segno negativo. Ma non solo. Vi è un secondo aspetto caratterizzante: ognuno degli eventi suddetti di cui si celebra il ricordo presenta, quale più quale meno, anche una quantità di particolari inquietanti, di molteplici dubbi irrisolti, di risvolti carichi di interrogativi senza risposta, i quali rimandano tutti immancabilmente a tenebrosi sfondi politici nonché a inadempienze clamorose o a insospettabili complicità (in realtà sospettate quasi sempre fin dal primo momento) da parte dei più importanti e delicati apparati pubblici. Sicché è ovvio che nel momento in cui li si commemora anche tutto ciò venga puntualmente ricordato con il giusto rilievo. Quasi sempre accompagnandolo con la richiesta di scuse ai parenti delle vittime e alla promessa di profondere ogni impegno per «far intera luce» su quanto è deplorevolmente accaduto. Grazie a un massiccio investimento commemorativo, è di fatto in questi eventi e in nessun altro che la Repubblica riconosce la sua memoria, e quindi è virtualmente ad essi che affida il suo profilo identitario. Che non basta certo il ricordo del remoto, sempre più remoto, 25 aprile a mutare di segno.
Se le cose stanno così mi chiedo che cosa mai potrà pensare del suo Paese, quale immagine potrà ricavarne, un giovane italiano che oggi giunge all’età della ragione. Egli sarà inevitabilmente convinto, temo, di essere nato in una sorta di nazione maledetta, un sorta di terra elettiva dell’illegalità e della violenza o nel caso migliore dell’inettitudine e dell’inefficienza, un luogo dove non è mai accaduto altro che malefatte e nefandezze, dove lo Stato ha quasi sempre protetto i golpisti, i bancarottieri, i terroristi, i ladri, i mafiosi, gli imbroglioni e i delinquenti di ogni tipo, e dove chi ha cercato di opporsi a tale andazzo ha fatto nove volte su dieci una brutta fine. Tale è il messaggio che in questi decenni abbiamo tutti contribuito a costruire e diffondere, perlopiù inconsapevolmente. Tale è soprattutto il messaggio che trasmette il nostro modo di commemorare ciò che pure è doveroso commemorare: un modo algido e convenzionale nella sua ripetitività. Basterebbe che almeno per una volta, ad esempio, per una sola volta, invece di ripetere l’eterno «bisogna far luce» qualcuno potesse dire «su questo abbiamo fatto luce!», basterebbe ciò, io credo, per cambiare tutto. Ma una simile rottura non c’è mai stata, e dal momento che la memoria ufficiale della Repubblica e i suoi riti commemorativi non ricordano mai un evento con il segno più, non evocano mai un successo, qualcosa che dunque sia in grado d’ispirare alcunché di buono e di grande, abbiamo costruito di fatto una vera e propria pedagogia del negativo.
Una pedagogia del negativo destinata inevitabilmente a dare scacco matto a qualsiasi buon proposito di educazione civica, di ammaestramento all’osservanza delle leggi, a qualsiasi eventuale orgoglio di appartenenza nazionale.
Sul terreno della memoria mi sembra che si sia prodotta, tra l’altro, una frattura generazionale che forse spiega molte cose della nostra situazione attuale. Mentre infatti le prime generazioni della Repubblica — diciamo quelle nate tra gli anni 40 e i 60 del secolo scorso — si formarono in un’atmosfera memoriale che ancora faceva posto a valori identitari antichi ma anche nuovi di segno positivo (non ultimi quelli dell’epopea della ricostruzione postbellica, che epopea fu davvero, oggi possiamo dirlo), quelle successive — ormai necessariamente immemori di ciò che era prima di loro — hanno sempre più risentito invece del clima che dicevo all’inizio. Di una memoria commemorativa repubblicana stando alla quale sono stati più o meno sempre gli «altri», i «cattivi», ad avere avuto la meglio, mentre «noi» — gli italiani «buoni» e il nostro Stato, la nostra democrazia — siamo invece sempre stati un campionario di errori e di difetti, non siamo mai riusciti a riportare una vera vittoria che fosse una e a combinare qualcosa d’importante. Ma quale voglia di fare, d’impegnarsi, quale senso della collettività e del Paese, torno a chiedermi, può mai avere chi da quando ha l’età della ragione ha respirato quest’aria?
Forse la decadenza italiana inizia anche da qui, dalla memoria. Anche da che cosa e da come si ricorda. Siamo stati forse vittime di un abbaglio quando abbiamo creduto che ricordare e illustrare di continuo il male servisse a generare il bene. Invece è probabilmente vero l’opposto: che cosi si finisce solo per generare non altro male, forse, ma qualcosa di peggio: l’indifferenza e l’impotenza da cui troppo spesso siamo avvolti.